
distillare: un post breve e lacrimevole
Non raccontiamoci menzogne: quando la vita ti gira bene, l’empatia passa in cavalleria per lasciare il posto ad altro. Ad esempio, quando sono felice (ebbene sì, è accaduto anche a me) amo spendermi attivamente: organizzo cene e sessioni di Radioserva, pratico sport, faccio regali. In compenso, ascolto molto meno.
Ma ultimamente, malmostosa e affetta dalla sindrome di Re Merda (la nemesi di Re Mida), misuro la superficialità con cui mi sono accostata alle sofferenze di chi mi circonda. Complice la mia recente e poetica visione della vita (una affollata piscina di guano dove non si paga nemmanco il biglietto), sto smontando la trappola per cui il dolore degli altri è dolore a metà.
Del patimento altrui mi stupisce sempre la narrazione, la versione personale che ognuno riesce a estrarre e verbalizzare, anche se non si chiama Goethe e non soffre di professione. Un caso per tutti, è questo post, ultimo di una serie di interventi particolarmente vivi e caldi sul blog www.aliceayres.com. Qualche mese fa li avrei banalizzati definendoli “tristi” ma adesso mi sembrano un metodo, diverso dal mio ma bellissimo, per fare i conti col dolore e distillarlo.
Che bel verbo, significativo e onomatopeico, distillare. Quando lo pronunci si sentono gocce che cadono, scavano la roccia e si fanno strada. Mi fa pensare a un processo lungo e faticoso che alla fine produce un risultato insperato. Come quel contadino veneto che per primo, anziché buttarle, ha distillato le vinacce e, òstrega, gli è venuta fuori la grappa. Con il dolore è lo stesso: per non vanificarlo, va spremuto goccia a goccia per estrarne qualcosa di eterno. O di bello. O entrambi.
PS. Ho continuato a concentrarmi sul verbo. Ho pensato che distillare significa separare e che stille è un altro nome delle lacrime. Insomma, come diceva qualcuno, le parole sono importanti.
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