
MI STAI DILUDENDO
L’altra volta ero buona e ho parlato di redenzione. Oggi invece sono triste e inutile come la foto del presidente nell’atrio dei licei, quindi parlo di rabbia. Se siete giocondi come Pollyanna, andate pure a intrecciare canestri di vimini da un’altra parte. Vi consiglio, come colonna sonora, Giovanni Allevi che esegue “Io penso positivo” con la pianola Bontempi, chissà che senso del ritmo. Per tutti gli altri, invece, c’è in fondo una playlist Spotify by me medesima dall’evocativo titolo Nonciovoglia. Se non avete Spotify, unitevi pure al team degli intrecciatori di canestri, ma in silenzio. Oggi sono profondamente arrabbiata con chi mi ha deluso. La prezzolata signora a cui racconto i fatti miei un’ora a settimana si è presto resa conto del drammatico effetto di 3 anni di Scuola Salesiana in età preadolescenziale sul mio lessico emotivo. Uno dei primi vocaboli che ho studiato è DELUSIONE. Se pensate che sia “disappunto dinanzi ad aspettative non soddisfatte”, siete fuori strada. La delusione è soprattutto RABBIA. Una mia amica speciale me l’ha detto: “Mi fai ridere come sempre, ma ti si sente, che sei tanto arrabbiata”. Vi assicuro che mi dedicherei volentieri ad attività femminili tipo sfornare cupcakes o fare la babysitter pro bono ai bambini delle mie amiche, ma faccio già uno sforzo immane per lavarmi i capelli e non andare al lavoro in pigiama, chiedo venia. Sono arrabbiata con chi ti fa intravedere un mondo bellissimo dallo spiraglio e poi richiude velocemente la porta. Sono arrabbiata con chi assiste indifferente al tuo dolore, che è un po’ anche il suo, ma sia mai che lo distogli dalle sue faccende. Con chi, quando faticosamente ti apri e dichiari cosa senti, ti accusa di “fare cinema”. Con chi ha deciso che tu non devi essere ma solo funzionare, e quando ti guasti ti butta via senza nemmeno differenziarti. Capite, non nell’organico ma insieme ai pannolini sporchi che proprio non c’è verso di riutilizzarli. Con chi non riesce -neppure per un secondo- a immaginare che un altro modo di vivere è possibile, solo perché sente puzza di fatica. Di chi non riesce a vederti braccia-aperte-sogni-negli-occhi-amore-nelle-mani, oppure ti vede e gira la testa verso la TV. Con chi, dinanzi all’invito a inventare un noi, se ne va a cercare motivazioni, se stesso o salcazzo cosa pensando che al ritorno ti troverà uguale a prima. Senza rendersi conto di averti trasformato nella brutta copia di te stessa. Allora me ne vado chissà dove, a cercare lo stesso benessere, in un luogo dove non siano richieste tessere, dove la paura sia di fare male, non di farsi male o farselo fare (Cromosomi, Lo Stato Sociale)