
è meglio morire d’estate o d’inverno?
Quando mi vedeva seduta nel giardino della casa in montagna, con la faccia annoiata, un Minipony da una parte e Barbie Benetton dall’altra, la solita nonna commentava “Neuda, nan, ta ma paret una che la sa no se murì d’estate o d’inverno” (mix di dialetto milanese e italiano: “Nipote, figliola, mi sembri una che non sa se morire d’estate o d’inverno”.)
Credo che nessuna espressione rappresenti meglio il dramma esistenziale di non sapere mai in che squadra si stia giocando, su un’altalena di passioni che vivono solo un giorno, come le rose.
Un atteggiamento mai realmente positivo verso i cambiamenti radicali, un disprezzo presuntuoso per la monotonia e la sicurezza.
Una eccessiva prontezza a rimettere sempre in discussione tutto, a rivalutare tutte le certezze. Una invidia indicibile per gli altrui punti fermi e una paura invalidante del per sempre.
Non sapere tipo di persona voglio diventare, a fronte di un’idea molto sommaria di ciò che non intendo essere. Avvertire il solletico dei progetti ambiziosi mixato al terrore atavico dello sbattimento. Una predisposizione congenita a pensare in grande ed una incapacità totale di gestire il rischio o la fatica.
Essere in grado di stilare la lista dei pro e contro di qualsiasi cosa. Amare sia Dylan che Brandon. Vedere che l’esistenza degli altri prende forme sempre più definite mentre la mia si sta sfocando. Aspettare per mesi un verdetto, senza riuscire a dire se me ne freghi qualcosa oppure no.
Non avere voglia di fare niente. Avere voglie senza nome.
PS La differenza tra chi sa cosa vuole e chi no si vede chiaramente nei desideri alimentari. C’è chi si alza e dice “che voglia di dolce”, c’è chi afferma di volere “frullato di papaya matura”. E’ accaduto davvero, mica noccioline.
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