Come avevo già raccontato, ultimamente non posso andare al cinema. Nel senso, potrei azzardare e andarci col bambino nella fascia (si può fare, conosco gente che l’ha fatto) ma niente mi assicura che dorma 2 ore di seguito. Potrei anche piegarmi alla legge della pirateria, scaricare illegalmente o tentare con lo streaming, ma sapete come la penso sull’argomento. Ma poi, siamo onesti, non riuscirei comunque a vedere un film tutto di seguito perché ho il sonno e la soglia di attenzione di un calabrone ubriaco. Quindi ho trovato questo interessante compromesso: film brevi, tendenzialmente non dei macigni intellettuali, reperibili su Netflix, suddivisi in lotti da 20 minuti, ovvero la durata di un pasto di Elia*. Vi pare un incubo? Vi assicuro che non lo è: sembra di guardare una serie TV. Trovate indecente che guardi un film mentre allatto? Vi garantisco che lui non vede lo schermo, il volume è bassissimo e non lo faccio mai di notte. E comunque, fatevi i cazzi vostri e ne riparliamo quando allatterete voi 7 volte al giorno. Ma basta polemiche, che vi ho selezionato 3 pellicole a tema “ragazze con problemi” che al confronto vi sentirete semplici e lineari come un paio di pantaloni di Cos.
ragazze con problemi mica da ridere: Love me!
Film tedesco, con tutto quello che ciò significa. La protagonista si chiama Sara (ma la sentirete sempre chiamare Zarah perché, appunto, è tedesca), ha una faccia tedesca che di più non si può, ed è un’attention craver con un complesso di Edipo grande quanto il Taj Mahal: vuole solo essere amata e cagata. Purtroppo però la scaricano tutti: l’ex fidanzato che la molla (nonostante lei gli porti a letto una colazione graziosamente presentata e tutto sommato instagrammabile), il padre di cui cerca l’approvazione (ma che nel frattempo aspetta un altro figlio dalla nuova moglie), il datore di lavoro (cui presenta un progetto che però non viene approvato). Come nella migliore tradizione, questa sete d’amore insoddisfatta la porta a bombarsi la qualunque nei cessi delle discoteche berlinesi e avere accessi di rabbia senza precedenti. Sara-Zarah è una di quelle che se fosse figlia mia la gonfierei di schiaffi, se fosse una mia amica la patirei per la sua inaffidabilità e se fosse la mia fidanzata la scaricherei cantando questa citazione “mi sono rotto il cazzo delle signorine che vogliono fare un sacco di cose, ma non ne sono in grado e se ne accorgono tardi, e allora 800 euro per la reflex, 200 per yoga e 300 per i peli del culo e 600 d’affitto per emanciparsi”. Invece Sara-Zarah riscuote un certo successo con gli sfigati: il suo migliore amico cicciobomba che si fa in quattro per aiutarla (ovviamente non ha nessuna amica femmina, facciamoci domande), il commesso di un negozio di computer con cui inizia una storia.
La germanitudine del film si apprezza nella voluta bruttezza e trasandatezza di costumi e make-up. Per dire, un antiestetico brufolo sul collo del nuovo ragazzo di Sara-Zarah viene inquadrato con un certo malsano compiacimento, anziché essere coperto con una cazzuolata di correttore. Il padre di Sara-Zarah sembra essere un professionista di successo ma è vestito come un turista povero in gita sul Lago Maggiore. É una estetica della verità che a me piace molto. La seconda protagonista del film è Berlino: se amate questa città, è il film per voi. Io non ci sono mai stata, ma dai, quando Elia avrà 18 anni magari riuscirò ad andarci! Si tratta di avere pazienza, come in tutte le cose. L’alternativa è abbandonarlo in una stanza d’hotel, ragionamento che ci porta dritti dritti al prossimo film.
ragazze con problemi mica da ridere: Tallulah
Questa è una produzione originale Netflix che, dopo Juno, riporta insieme Ellen Page e Allison Janney. Qui non abbiamo solo delle ragazze con problemi: abbiamo ragazze con valigie piene di problemi. Il primo problema di Tallulah-Ellen Page, a mio modesto parere, è il nome. Voi pensate che l’accento vada sulla prima A, vero? Sbagliato, va sulla U. Tallulah suona come padulah, o ‘fanculah.
Tornando a noi, Tallulah è una homeless che risiede in un furgone -non senza orgoglio e dignità- e che, a fin di bene, ci tengo a sottolinearlo, rapisce una bambina da una stanza d’hotel di New York. Forse se la madre della piccina non l’avesse abbandonata per uscire a farsi i cazzi propri, tutto questo non sarebbe accaduto, no? Quindi, la mia posizione è: #jesuistallulah.
Non sapendo dove portarla va a fare una bella improvvisata alla madre del suo ex fidanzato la quale non è più una ragazza, ma di problemi ne ha comunque parecchi: ad esempio, suo marito criptogay l’ha lasciata e da sempre la tradisce con un uomo, mentre suo figlio non le parla da anni perché la trova pesante come un macigno. Ecco, questa donna che è interpretata da quel genio non pienamente compreso che è Allison Janney, si rivelerà un ottima amica per Tallulah e una nonna affettuosa per la piccola, stupendoci tutti con il suo buon senso e la sua lealtà. Ellen Page, grandiosa as usual, ribadisce ciò che ci aveva già insegnato in Juno e conferma quello che ti dicono medici, psicologi e ostetriche: l’istinto di accudimento viene quando ti mettono un bambino addosso. Le vorrete bene.
ragazze con problemi mica da ridere: A girl like her
Da New York ci spostiamo nella triste provincia, in quel luogo marcio e a questo punto terribile che è il liceo americano. Questo mockumentary su bullismo e cyber bullismo tra adolescenti, ispirato a diversi casi di suicidi accaduti negli USA da parte di teen agers, non ha niente di Mean Girls. Non mi ero mai interrogata a lungo sul tema, ma ho prodotto dei pensieri (in questo agevolato dalla visione a rate: a volte spezzare i contenuti in tranci più piccoli aiuta a elaborarli).
Il bullo non è brutto, tracagnotto, violento, nato nei bassifondi e costretto a farsi strada nella vita a gomitate: qui il bullo è bello, femminile, studioso e borghese. Per usare una metafora che spero in molti capiscano senza seguire questo link, il bullo dei licei americani non è Franti, ma Derossi. La radice del bullismo non è solo lo scherno o il desiderio di sopraffazione: si può bullizzare per invidia o per vendetta. Ad esempio, la vittima di “A girl like her” non viene bullizzata per il proprio aspetto fisico, ma per un antico torto ai danni della sua ex amica. Infatti si tratta di una relazione one-to-one, non il classico caso di “vittima collettiva” che, per quanto gravissimo, sarebbe molto più facile da individuare anche da parte di insegnanti e genitori dotati di spirito di osservazione. Invece qui, le ragazze con problemi se li tengono ben segreti, questi problemi: le famiglie cadono dal pero quando apprendono di avere, rispettivamente, una figlia bullizzata e una figlia carnefice.
Non so se gli stereotipi e le vicende della high school americana possano essere semplicemente trasposti in Europa: io ho la sensazione, per fortuna, che ancora non sia così, ma manco dai corridoi dei Liceo Gioberti da circa 15 anni per cui potrei non essere così preparata sul tema. Se tra i miei lettori c’è qualche teen-ager, per favore mi spieghi la verità.
*Per la cronaca, io non la chiamo poppata, la trovo una parola orribile, infantile e anni ’80 come anche poppatoio, poppe, puppe e pappe. Si dice: momento di allattamento, biberon, seno, tette e alimenti per neonati.