
La tristezza spiegata ai bambini: “La canzone del mare”
Succede che quando hai un bambino fai cose che non credevi possibili. E non mi riferisco solo a prodezze tipo leccare il ciuccio dopo che è caduto sul selciato per disinfettarlo. Ad esempio, puoi andare al cinema con bebè, una rassegna domenicale per famiglie organizzata dalla rivista Giovani Genitori e dal Museo del Cinema. La proiezione -parliamo di film d’animazione o comunque adatti a un baby pubblico- si effettua a volume ridotto e luci soffuse, onde non impressionare i bambini svegli e non destare quelli che dormono. L’organizzazione rende disponibili fasciatoi, scalda-biberon e alzatine per permettere ai bambini piccoli di vedere lo schermo senza essere fagocitati dal sedile a ribaltina.
Potevo forse farmi sfuggire l’opportunità di tornare al cinema dopo oltre 4 mesi? Elia ha capito come buttava e ha dormito nella fascia tutto il tempo. Non ha urlato né pianto. E io? Io ovviamente sì.
Vorrei sapere com’è possibile vedere “La canzone del mare” senza commuoversi: è una storia dannatamente triste. E non parliamo di tristezza disneyana, o all’americana, dove si parte maluccio ma grazie all’intraprendenza del protagonista -oltre che a una dose di sanissimo culo- i problemi si risolvono e torna a sorridere. In questo film c’è una tristezza più sottile e pervasiva, da vecchio continente.
Per la precisione, è una tristezza irlandese: ci sono l’isolamento, i parenti stronzi, la morte, l’alcool, la pioggia, i fari, il mare nero, gli uccelli notturni, le melodie struggenti. In questi casi, cade a fagiolo l’affermazione di Frank Mc Court in “Le ceneri di Angela”: Un’infanzia infelice irlandese è peggio di un’infanzia infelice qualunque. E i due fratellini protagonisti di “La canzone del mare” lo sanno bene: la loro mamma è una selkie, una creatura mitologica capace di trasformarsi in foca, nata dal mare e al mare tornata, dopo la nascita della figlia più piccola, che si chiama Saoirse. So che state fremendo per sapere come si pronuncia il nome Saoirse. Pronti? Tenetevi stretti: si dice Sirsha. Quindi, non c’è più bisogno che diciate “quella giovane talentuosa attrice che ha fatto la sorellina bugiarda in Espiazione e la bambina morta in Amabili Resti” pur di non arrischiarvi e fare errori: ora potete, con orgoglio e convinzione, gridarlo ad alta voce e sentirvi nel giusto.

Saoirse Ronan, crediamo di doverti tutti delle scuse per come abbiamo pronunciato il tuo nome. Ma consolati, pensa a Mia Wasikowska.
I due fratellini, forzosamente trasferiti a Dublino, faranno un immaginifico viaggio per garantire la sopravvivenza della stirpe delle Selkie, ma anche di tutte le altre creature fantastiche che -si sa- in Irlanda si incontrano a ogni piè sospinto. Ce la faranno? Ritroveranno la mamma? Essa abbandonerà la carriera da foca Selkie per tornare a occuparsi dei suoi figli e strappare suo marito al pub? Non ve lo dico, non sono mica scema.
Ma il punto è un altro. Se questa coltre di tristezza è rimasta addosso a me per ore, cosa avrebbe potuto fare a Elia? É giusto preservare i bambini dalla tristezza oppure esiste un modo per spiegargliela senza che ne siano travolti? Ora che ci penso, io sono stata sovraesposta alla tristezza: le fiabe classiche che mi raccontava mia madre erano piene di genitori snaturati, i cartoni animati dei miei pomeriggi scolastici erano popolati di orfanelli, mentre gli audiolibri erano pieni di gattini tormentati dalle streghe. Ora, forse ho un’indole leggermente più crepuscolare della media italiana, ma sono sopravvissuta.
Io credo che la tristezza che resta addosso a un bambino dopo aver visto un film sia utile. Essere tristi per qualcosa che è accaduto ad altri è un grande esercizio di empatia, quella misteriosa capacità di fare proprie le emozioni altrui che ci rende umani. Le vicende altrui sono una buona palestra, in preparazione della tristezza vera, quella che ci toccherà -prima o poi- in prima persona. Meglio esercitarsi ad accoglierla come una vecchia amica, come un sentimento normale che fa parte dei giochi e che molto spesso se ne va così com’è venuto. Il rischio è quello di non saperla riconoscere ed esserne completamente travolti.
Vorrei un giorno di essere capace di parlare di tristezza con Elia: perché, diciamocelo, le storie tristi sono un oggetto di discussione infinitamente più stimolante rispetto a quelle gioiose. Figliolo, secondo te perché il papà di Saoirse e Ben si stordisce di whiskey irlandese al pub? Perché Ben è geloso di Saoirse? Che dici, ha ragione o torto? La nonna di Ben e Saoirse è davvero cattiva? Perché quella stronza della mamma di Ben e Saoirse li ha abbandonati?
Spero anche di riuscire a rassicurarlo e demarcare chiaramente la distanza tra la finzione cinematografica e la realtà: “No, piccolino, papà va al pub solo per vedere la partita perché siamo tirchi e non abbiamo Sky”. “No, amore, tu non devi essere geloso, non c’è nessuna sorellina in arrivo”. “No, tesoro, le tue nonne non ti porteranno a vivere in un appartamento umido di Dublino.” “No, gioia, io non sono una Selkie, io non ti abbandonerò per unirmi a un branco di foche. Ma se vuoi proprio essere sicuro sicuro sicuro sicuro che io non fugga via, potresti cominciare a dormire 8 ore di seguito”.
Alexandra
Ottobre 20, 2016 at 8:19 am
Sembra comunque un film da vedere. La tristezza i bambini ce l’hanno dentro fin da molto presto, anche se non sempre ce ne accorgiamo/ce ne ricordiamo. Certo, ci vogliono le parole e i modi giusti per affrontarla e ogni età ha i suoi. Comunque me lo segno 🙂
Antonia
Ottobre 20, 2016 at 10:05 pm
Credo che tristezza e malinconia siano parte di noi. Non c’è modo di aprezzare le cose belle se non hai provato la tristezza. L’empatia è frutto di sofferenza a mio parere. Solo chi soffre un po’ può entrare in contatto con gli altri.
Forse la penso così perché io sono così. Capace di tristezze infinite ma anche di cogliere la felicità ovunque si trovi.