Domenica scorsa sono andata al secondo appuntamento di Cinema con Bebè, la rassegna domenicale per famiglie organizzata dalla rivista Giovani Genitori e dal Museo del Cinema di cui avevo parlato in questo mio precedente post. Elia si è rivelato oltremodo collaborativo, in quando ha russato nella fascia per tutti i 93 minuti di “Il libro della Vita”, film di animazione del 2014 diretto dal messicano Jorge R. Gutierrez, peraltro nominato ai Golden Globe nella categoria “Miglior film d’animazione”. Ha vinto? No. Ma a noi che ci importa, perché, amigos, es muy muy lindo.

Una locandina sobria, ma sobria, che più sobria non si può
A me è piaciuto follemente: non solo perché sono ancora in piena esogestazione e mi commuovo anche per le formiche che ingiustamente uccido camminando in un parco, ma anche perché parla del Messico, un Paese di cui sono innamorata ma con il quale ho fatto pace solo l’anno scorso. Ciao, latecomers e lettori nuovi! Per ripassare il mio amore-odio per il Messico, leggete la storia narrata qui, mentre per saperne di più della mia vacanza messicana, leggete qui, qui e qui.
Il film è stato proiettato a ridosso del 2 novembre, il giorno dei morti, e non è un caso. In Messico, il Dìa de Muertos è una festività importantissima. Anzi, per dirla tutta, i Messicani sono un tantino ossessionati dalla Santa Muerte, un mito precolombiano che piace un po’ a tutti: cittadini ordinari, perbenisti, cattolici e animisti, ma anche LGBT e narcotrafficanti. Tipo che a Città del Messico 10 minuti dopo l’arrivo mi sono imbattuta in questo rassicurante altarino.

Ciao Muerte, tutto bene spero
La storia, apparentemente banale, è quella di un triangolo amoroso à la Jules et Jim: due amici innamorati della stessa bellissima e fiera ragazza, Maria. Questo triangolo amoroso è oggetto di una scommessa tra le divinità che sovrintendono i due regni dei defunti e che, per passare il tempo e risolvere le loro antiche scaramucce, ogni tanto si divertono col cuore degli umani. Un po’ come i fratelli Mortimer e Randolph giocano con la vita di Eddy Murphy in “Una poltrona per due”, non so se ho reso l’idea.
I due ragazzotti sono quanto di più diverso potreste immaginare: uno tutto chiacchiere, l’altro tutto distintivo. Manolo è erede di una stirpe di toreri, ma scrive canzoni e suona in una band di mariachi, mentre Joaquin aspira a sconfiggere banditi e briganti. Maria, che sarà pure bellissima e fiera, ma è pur sempre #unadinoi, ovviamente schifa lo sbirro e sceglie senza esitazioni il musicista degenere. Il quale, per una serie di vicissitudini che non sto a dirvi altrimenti facciamo notte, dovrà farsi un lungo e complicato tour nei regni dei defunti ove si unirà ai suoi antenati, che riconoscerà immediatamente nonostante il loro volto sia ormai ridotto a un teschio. Che meraviglia, l’iconografia messicana! Pensa te, io conosco una che si è persino comprata un set di ciotole da gelato coi teschi.

Usate ben 1 volta in 18 mesi, of course
Eccola qui, la prima cosa bella: addio fiamme dell’inferno dantesche, pesata delle anime egizie, Nirvana di contemplazione. Nella mitologia precolombiana funziona che se tra i vivi qualcuno ancora ti pensa e ti vuol bene, finisci nel Regno dei Ricordati. Altrimenti, se sei stato una merdaccia e hai fatto fare una vita grama ai tuoi cari tanto che essi si sono scordati di te, taac, ti tocca il Regno dei Dimenticati. Mentre i ricordati se la spassano tra canti, balli e -immagino- moltissime sessioni di amarcord delle loro avventure terrene, i dimenticati si annoiano come quando fai i solitari di Windows. Quindi, ricordando i defunti nel Giorno dei Morti a) evitiamo loro il disonore di finire tra i dimenticati e b) assicuriamo loro un eterno e divertente riposo nella luce perpetua (amen). Spero di ricordarmene quando mi toccherà spiegare a Elia la morte, prima che mi baleni per il cervello l’idea di dargli qualche orrida spiegazione scientifico-materialista sull’essere vivente che nasce, cresce, si riproduce e poi muore.
La seconda cosa bella, dove con bella intendo spropositatamente commovente, è il doppio obiettivo della gitarella a Mortolandia di Manolo: uscirne indenne e conquistare Maria, ma anche scoprire qual è il suo posto nel mondo. Che, con grande dispiacere del suo babbo infilzatori, non è l’arena: niente banderillas, Manolo preferisce la chitarra. Il ragazzo ha indubbiamente talento, ma il regista Gutierrez gli dà un aiutone in tal senso, adattando per lui e mettendogli in bocca alcuni canzoncine di alcuni autorucoli contemporanei, tipo Mumford&Sons, Radiohead, Rod Stewart ed Elvis Presley. La parte migliore si raggiunge con una versione fighissima di “Home”, di Edward Sharpe & the Magnetic Zero. (Non sapete chi sono? Niente paura: il nome di questo gruppo lo conosco solo io, e la mamma del cantante).
La terza cosa bella è lui, quell’inconfondibile e chiassoso mix di rosso, viola, giallo, verde, bianco, chitarre, baffi, maracas, cappelli, teschi, ahi-ahi-ahi-ahi-ahi-canta-y-no-llores si cui soltanto il Messico sa abusare senza stufare né stroppiare mai.
2 Comments
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polepole
Febbraio 15, 2018 at 10:47 am
No ma una meraviglia! Devo trovarlo.
Ho visto Coco, ho pianto come ogni volta che vado al cinema e proiettano un qualsiasi film, però leggendoti ora mi rendo conto di quante similitudini… dovremo indagare, sì.
gynepraio
Febbraio 18, 2018 at 10:18 am
Poi dimmi se è una mia impressione…