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By gynepraio6 Marzo 2017In Personale

Essere un influencer di professione

Ci sono polemiche che si ripropongono con una ciclicità strana, tipo quelle verdure speciali che ci sono solo 2 settimane l’anno. Ecco, gli agretti, per esempio: arrivano sui banchi del mercato verso metà marzo, per 15 giorni è tutto un fiorire di verdura che paiono capelli verdi, buoni, la febbre degli agretti, solo agretti, voglio gli agretti, agretti for president, dopodiché spariscono con la nonchalance del mago David Copperfield e ciao, tutti se li dimenticano.

influencer di professione

Un verdura incredibilmente punk, a mio parere

La polemica sugli influencer di professione, sulla natura e utilità del loro ruolo segue un andamento molto simile. Periodicamente, arrivano due settimane in cui tutti abbaiano come matti su quanto sia perverso e corrotto il meccanismo con cui essi subdolamente insegnano ai loro follower prima a desiderare e poi a comprare qualcosa che, alternativamente:

  • non sapevano esistesse fino 5 minuti prima
  • è del tutto superfluo o dannoso
  • non possono permettersi

Io seguo fino a un certo punto il dibattito ma dopo un po’ vengo assalita da un mix di noia e compatimento che mi fa passare la voglia di vivere, figuriamoci di intervenire. Nonostante, e questa è la cosa divertente, alcune persone mi chiedano in privato di dire la mia su un certo personaggio o su una determinata querelle in corso. No, amici, con me non attacca: troppo facile chiedermi una opinione con un messaggio privato, adesso vi beccate il post sputasentenze tutto intero.

Io penso che gli influencer di professione siano non solo degni di esercitare il loro lavoro, ma anche utili. L’influencer meritevole è in grado di:

  • rivelarmi cose che non sapevo: un servizio, un’app, un cosmetico, un luogo, un brand che io non conoscevo perché, ehi, c’ho una vita, di cognome non faccio Treccani e non posso informarmi su tutto
  • farmi aprire gli occhi su cose che sapevo già: suggerire usi nuovi per prodotti esistenti, rivalutare cose dimesse o mostrarmi abbinamenti inediti per oggetti scialbi, collocare un prodotto in un sistema di valori anziché farlo essere “astratto”
  • rivelarmi cose banali con una voce speciale: intrattenermi, in primis, ma anche vendermi un prodotto in maniera semplicemente arguta, al pari di quei baristi brillanti che sanno rendere speciale con la loro ironia un gesto consueto come prendere il caffè

Per riuscire a ottenere uno dei tre risultati di cui sopra, ci vogliono talento e lavoro. Il talento è un dono della sorte, al pari della bellezza o dell’altezza, mentre il lavoro è merito personale, è un’opera di creazione/trasformazione e come tale va retribuito. Come in tutti gli ambiti professionali, c’è chi lavora con coscienza e chi no. Come un insegnante di latino non dovrebbe dare ripetizioni di matematica, così un influencer autorevole sulla moda non si dovrebbe cimentare con le automobili. Ma questa è la mia opinione, ed è la mia visione etica e moralista del mondo: oltretutto, io non faccio l’influencer di professione e quando mi sono state proposte delle collaborazioni che non mi interessavano o che non avevano nulla a che vedere con il mio profilo, semplicemente ho detto di no. Sono nella posizione molto fortunata di pagare le bollette con il mio stipendio da dipendente e non con le cifre esigue con cui vengono pagati i miei post sponsorizzati. Cifre che non esito a definire esigue in senso relativo (cioè rispetto a quelle che percepisce un influencer di professione) sia in senso assoluto (cioè considerato l’importo di per sé): vi assicuro che il tempo che ci impiego io a scrivere un post sponsorizzato del quale mi ritengo soddisfatta e che penso abbia comunque un suo valore intrinseco non viene assolutamente compensato né dal denaro, né dai buoni acquisto né dai prodotti che l’azienda mi offre. Per chiarirci, se in quelle 3 o 4 ore avessi pulito la mia casa ed evitato di pagare la colf, ci avrei guadagnato.

influencer di professione

Ecco cosa dovrei fare, altro che l’influencer

Questo perché io non sono una influencer di professione e i miei numeri non sono tali da indurre le aziende ad investire molto denaro su di me. Perché lo fai, allora? Semplice, perché mi piace, perché mi occupo di marketing e in questo modo vedo dall’interno dei meccanismi interessanti, perché mi dà l’opportunità di fare networking, perché mi mandano cibo o cosmetici a casa che poi posso regalare alle mie amiche, perché mi sento brava quando mi arriva il misero bonifichino, perché se mi pagano con i buoni acquisto ci escono i regali di Natale per i parenti. Ma soprattutto perché io l’asilo di mio figlio lo pago con il mio stipendio da dipendente, e quindi questo è un divertissement.

Non avrò dei numeri stellari, ma so come funziona il meccanismo di reclutamento degli influencer di professione. Tanto per cominciare, ogni azienda ha la sua personale visione: ad esempio, una società in cui ho lavorato in passato era del partito che gli influencer non si pagano mai, mai, mai e poi mai, ma si omaggia loro prodotto in abbondanza, la cui bontà e utilità li indurrà a produrre un grande buzz. I risultati di questa prassi, a mio parere, sono discutibili e non mancai di dirlo, restando ovviamente inascoltata. Altre aziende stanziano un budget che viene equamente ripartito su molti influencer, con il risultato che l’output è “livellato” sul tipo di compenso previsto. Altre aziende ancora scelgono influencer ben precisi, li pagano proporzionatamente alla loro patrimonio di followers e ai risultati attesi, dando loro dei dettami ben precisi su come muoversi e sugli output da produrre. É innegabile che alcuni influencer di professione, se associati al brand giusto, possono essere dei veri Re Mida, altro che i manifesti 6×3 sulla Salerno-Reggio Calabria.

Ognuna delle 3 strategie richiede un investimento di tempo e denaro differenziato. Per fare una selezione chirurgica del loro operato, devi fare un monitoraggio perenne e non episodico sugli influencer, li devi contattare, devi vendere loro il tuo progetto, istruirli, spedire il prodotto, verificarne l’operato e infine pagarli. Io capisco che la piccola azienda Grattapalle snc non si lanci in un piano di digital PR così articolato: vorrebbe dire assumere una persona che per molte ore al giorno sta su blog, Snapchat, Instagram e Youtube a carpire i segreti della rete, verificare cosa fa la concorrenza e via dicendo.

Il problema si pone quando l’azienda dà in outsourcing tutte queste operazione a delle agenzie e dà loro carta bianca. Spesso si verificano due fenomeni, diversamente brutti ma ugualmente controproducenti:

1-l’effetto distonia. Il prodotto viene propinato alla persona sbagliata, che però accetta di svolgere il lavoro per i motivi più disparati -non ultimo il bisogno di denaro, oppure banalmente la volontà di fare un favore all’agenzia con cui lavora da mille anni-. Ne viene fuori una cosa simile alle angurie quadrate giapponesi, o agli abiti da sposa HM. Qualcosa stona. Recentemente ho letto il post di una blogger neomamma che magnificava un omogeneizzato per bambini sopra i 6 mesi: peccato che la sua creatura ne avesse ben di meno ed evidentemente non poteva averlo assaggiato. Io la telefonata agenzia-blogger me la immagino: “Senti, dai, con tutti i soldi che ti ho lasciato l’anno scorso, fammi il favore, su! Prendi ‘sto comunicato stampa, rimaneggialo un tantino, appiccicaci una foto di Shutterstock e scrivici un post, va bene? Ok, grazie, eh!”. Vi cito quest’esempio, ma ci sono blogger che parlano alternativamente di cosmetici, cibo per cani, sistemi anti-intrusione, robot da cucina, diserbanti da giardino. Sono autorevoli? Secondo me per nulla, dopodiché loro fanno i big numbers e io no, per cui sto zitta e se proprio sono infastidita smetto di seguirle.

2-l’effetto gallinaio. L’agenzia non assortisce il mix degli influencer, ma sceglie una rosa di persone che sono troppo “simili e vicine” tra di loro. In questo, dimostra di ignorare le abitudini del follower medio e quindi di non aver studiato un cazzo. Fatevi un giro su Bloglovin: le ragazze di 20-30 anni seguono una dozzina di lifestyle blog, e solitamente sono iscritte ai canali social di tutte le autrici. Se l’agenzia, o l’azienda, spedisce a tutte queste influencer un maglioncino in pura lana d’alpaca albino e le incarica tutte quante contemporaneamente di:

  • fare un lento e meticoloso unboxing su Snapchat
  • fotografarsi col maglioncino su Instagram, condividendo lo scatto su Twitter e Facebook
  • scrivere un breve post sul loro blog mettendo il luce il suddetto maglioncino

Il risultato è un affollarsi fastidioso di contenuti tutti uguali che in me genera un po’ di noia e alzate di sopracciglio critiche, ma che in alcune followers passivo-aggressive suscita reazioni rabbiose e deluse: “Ma come, ma allora fate le cose in serie?” “Ma allora siete pagate?” “Com’è che a voi vi regalano il maglioncino in pura lana d’alpaca albino a me no?” Lo sapevo, che è tutto un magna-magna!” “Ah smarchettone, ma vaffanculo va”!” “Oddeeeeo, ma avete mandato il maglioncino in pura lana d’alpaca a quella che è brutta come il culo di Satana, ma allora non capite niente…” A me è capitato di notare quest’effetto gallinaio, non l’ho trovato piacevole e non mi è venuta voglia di acquistare il brand. Ho anche pensato “Certo che se hanno reclutato quell’imbecille potevano benissimo coinvolgere anche me che l’avrei fatto meglio”, dopodiché il mio pensiero si è esaurito lì. Eppure sarebbero bastati alcuni accorgimenti per evitare questo effetto:

  • dilazionare nel tempo l’operazione (allarme, devi pianificare in anticipo!)
  • differenziare il prodotto oggetto di promozione (allarme, devi spendere di più!)
  • imporre alle influencer di concentrarsi su un solo canale (allarme, devi studiarti degli analytics!)
  • richiedere alle influencer un lavoro più creativo (allarme, devi retribuirle di conseguenza!)
  • assortire meglio il mix di influencer (allarme, devi studiare meglio il target di followers!)

 

Credo che nel 2017 le operazioni di martellamento non siano più efficaci: la pubblicità del Pisolone mandata in onda a oltranza sulle 3 reti Fininvest funzionava coi bambini degli anni ’80, ma adesso il consumatore si aspetta di sentir dire la cosa giusta dalla persona giusta il numero giusto di volte. Quanto sia quel “giusto”, dipende dalla sensibilità e professionalità di brand e agenzie: se posso essere sincera, trovo che ci sia molta meno professionalità tra di loro, che non tra le influencer. Le quali -come tutti i liberi professionisti e imprenditori- lavorano in una logica di mercato e a fine mese devono anch’esse pagare le bollette.

L’optimum sarebbe che fossimo veramente esseri liberi, che non subissimo nessun tipo di condizionamento e comprassimo davvero ciò che ci serve, piace e fa stare bene senza l’obiettivo di aderire a nessun modello. Conosco forse 2 persone che ci riescono. Tutte le altre, bene o male, possiedono delle fonti di ispirazione a cui ricorrono, anche se lo negano. Resta il fatto che ognuno può selezionare i propri role model, idoli e influencer, perché siamo in un mondo libero. E dinanzi a questo ampissimo ventaglio di opportunità -ispirarsi a Rosy Bindi, a Melania Trump, a Mercoledì Addams- non mi riesce di capire perché ancora ci si stupisca della loro esistenza o si metta in dubbio la loro funzione.

Per avvalorare la mia tesi e dimostrarvi la loro utilità, ecco un piccolo digest dei prodotti che io ho comprato perché raccomandati da un influencer:

  • uno: acquistato ganci 3M per calendario dell’avvento e decorazioni nella stanza di Elia
  • due: bottiglia trasparente per me e per Michele
  • tre: sneakers Bensimon per me e Michele

Per dimostrarvi cos’è un post sponsorizzato scritto bene, ecco una piccola selezione di interpretazioni creative seppure prezzolate:

  • uno: cliente Danone, è un racconto personalizzato e metodico di un gratitude Journal
  • due: cliente Canon, è un racconto ironico di come funziona questo cloud per fotografi
  • tre: cliente Amazon, è una spiegazione nofrills di pregi e difetti degli audiolibri e del servizio Amazon dedicato
  • quattro: cliente Dietor, è un racconto di come mi sono messa alla prova usando dei surrogati dello zucchero al fine di smettere di dolcificare qualsiasi cosa

Ecco, mi sono autocitata. Il prossimo step è che parlerò in terza persona, farò il gesto delle virgolette con le dita e scriverò sulla mia bio “blogger presso se stessa”.

svgInstamonth Febbraio 2017
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svgÉ finita l'esogestazione, so what's next?

37 Comments

  • Elle

    Marzo 6, 2017 at 10:58 am

    No, dai, ho capito male, non mi hai veramente dato dell’influencer (grazie ma non ci vado neanche vicino!)! 😉

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    • gynepraio

      Marzo 6, 2017 at 1:17 pm

      Invece sì. Sei influencer senza averne l’aria, parafrasando Guccini.

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      • Elle

        Marzo 6, 2017 at 1:19 pm

        Ora mi citi pure Autogrill. MOLTO <3. Ma tanto (ancora grazie)

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  • Veronica

    Marzo 6, 2017 at 12:10 pm

    Ciao Valeria, concordo pienamente con la tua analisi, hai espresso perfettamente i pensieri che mi giravano in testa da un po’, da quando cioè qualcuno si è svegliato realizzando improvvisamente che siamo nel 2017 e, OMG, esistono gli influenzers! da cui polemicone.
    Hai citato, secondo me, le migliori – la Chiara, Tegamini, la Torelli, le ragazze Marziane – sono talmente brave e preparate a livello di comunicazione che come dire, vincono facile. Aggiungo anche te al gruppo perchè mi pare che tu abbia lo stesso tipo di approccio, e francamente mia cara, chi scrive si è comprata la famosa vaporiera Tefal a occhi chiusi, e senza mai pentirsene un nanosecondo, mica perchè a consigliarla sia stato Mastrota. Il bello è che non sono manco sicura che sia stato un incarico, ho avuto l’impressione che fosse un consiglio bello e buono e aggratis. Resto col dubbio ma proprio questa storiella mi porta ad enfatizzare un punto cruciale: l’influencer per me dev’essere innanzitutto persona credibile. Preparate, simpatiche, brillanti, convincenti – va benissimo, ma io devo poter pensare che se a te il prodotto fa schifo non me lo sponsorizzi alla stregua di uno che ti manda in estasi. In sintesi: no paraculaggine. Chiudo dicendo che le aziende hanno ancora anni luce di strada (e ricerche) da fare, comincerei per esempio a selezionare come minimo gente simpatica, gente che non trasmetta l’idea che avrebbe preferito stare a farsi strappare le unghie a Guantanamo invece che a pubblicizzarti la suite (si Nhow Hotel, parlo con te).

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    • gynepraio

      Marzo 6, 2017 at 1:20 pm

      Hai indovinato. La vaporiera non era assolutamente sponsorizzata, anzi. L’ho vinta con i punti dell’Esselunga (cui avevo sponsorizzato il servizio Esselunga a casa circa 7 anni fa, senza che Caprotti buonanoma si fosse accorto del mio servizio).

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  • Antonia @azzetazeta

    Marzo 6, 2017 at 1:32 pm

    Applausi a scena aperta per aver reso in modo così chiaro un pensiero che noi “comuni mortali” abbiamo da tempo. Vado a distribuire la tua saggezza sugli altri Social. Tutti devono sapere.

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  • Marianna

    Marzo 6, 2017 at 1:58 pm

    Post capolavoro, davvero chiaro anche per chi non è addetto ai lavori! =)

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  • Ilaria

    Marzo 6, 2017 at 2:30 pm

    Post perfetto. Devo dire la verità, io detesto quando mi vogliono vendere le cose, me ne accorgo, non mi piace. Quando 20 foodblogger che seguo postano lo stesso prodotto in circa 3/4 ore io penso che quel brand e le blogger lo stanno facendo male e se lo fai male, allora io non ti compro.
    Poi per come la vedo io c’è la questione etica: parlo sempre di food, e li ad esempio trovo incoerente, non so, una notissima cioccolata e una notissima bibita gassata se nel blog sei tutta bio e negozietti a Km 0 e pane fatto in casa.
    Poi c’ è la questione influencer che non costruiscono contenuti: se una nota influencer lo è perchè ha numeri stellari e mi propina solo liti, polemiche e insulti su twitter io, beh, alzo il sopracciglio non tanto verso la tipa, quanto verso il brand.
    P.s. Acquistata la vaporiera per “colpa” tua!
    P.s.2 Non seguo più nessuna star nè su twitter nè su snapchat, a parte roba food e pochissimi casi isolati, va bene cosi, però la colpa principalmente è degli influencer!

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    • gynepraio

      Marzo 8, 2017 at 11:09 am

      Anche io non amo l’incoerenza -non solo sul fronte collaborazioni ma in generale!- tuttavia posso capire che tutti debbano lavorare e spesso accettare operazioni non così affini al proprio spirito.
      Quanto alla capacità degli influencer di farti amare qualche cosa pur non costruendo necessariamente un autentico storytelling, devo dirti che si tratta comunque di un meccanismo affascinante (è l’effetto college, di cui avevo già scritto un paio d’anni fa: se hai voglia cerca il post). Affascinante, dico, perché grazie a Dio riesco ancora a non abboccare proprio a tutto.
      Quanto al fastidio, se il web deve diventare fonte di ansia o scazzo, il defollow è LA SOLUZIONE. Brava.

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  • Carol Belli

    Marzo 6, 2017 at 3:28 pm

    Secondo me, il problema principale è la mancanza di chiarezza per un fenomeno che seppur ormai da qualche anno diffuso è molto recente… ricordo che qualche anno fa 2012/2013 non riuscivo ad assimilare il pensiero che gli youtuber lavorassero facendo video. Non perché non mi piacessero, anzi. Era la piattaforma che usavo di più in quel periodo, ma temevo che vederlo come un lavoro avrebbe voluto dire perdere completamente di vista il contenuto spontaneo. Non so se sono stata chiara. Ora ovviamente la penso diversamente. E in ogni caso una persona che smarchetta e basta evito di seguirla e stop.

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    • gynepraio

      Marzo 8, 2017 at 11:12 am

      Hai ragione: una chiave per lavorare bene è alternare contenuti di prodotto/servizio con altri più personali/umoristici. E’ un’altra delle caratteristiche che distingue gli autori lungimiranti da quelli poco saggi.
      Anche perché non ti metti mai in discussione e non esponi mai un punto di vista personale, rimani un macinatore di contenuti pagati e secondo me ti annoi pure.

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  • Marghe ✿

    Marzo 6, 2017 at 4:26 pm

    ti leggo con gli agretti a bagno nel lavandino 😀

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  • Stefistro

    Marzo 7, 2017 at 9:55 am

    Davvero molto interessante e chiaro, riassume moooolti dei miei pensieri sul tema. Non conoscevo il tuo blog e sono arrivata su consiglio di Antonia che ti ha citato su Snapchat! A proposito qual’è il tuo account Snapchat che ti seguo anche lì?

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    • gynepraio

      Marzo 8, 2017 at 11:13 am

      Mi chiamo @valeria_fiorett ma forse nel frattempo mi hai già aggiunta!

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  • Brunhilde

    Marzo 7, 2017 at 10:42 am

    Concordo sul sospetto di carente professionalità tra chi dovrebbe selezionare gli Influencer giusti. Mi permetto una chiosa: quel che mi secca maggiormente è notare come, nella maggioranza dei casi, non sia ancora chiaramente specificato: «post sponsorizzato», oppure: «post in collaborazione con Marchio XYZ», oppure, nel caso di post su Instagram: #adv, #prsample, eccetera eccetera.
    Quando guardiamo la tv compare la scritta: «messaggio promozionale», sul giornale femminile si riscontra la dicitura: «servizio publiredazionale», e via discorrendo.
    Non trovi che sarebbe più corretto, nei confronti dei propri follower, specificare subito ed apertamente che il post che stanno visionando non è frutto di una spontanea simpatia per il marchio XYZ, bensì è ispirato da una (giusta) retribuzione?

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    • gynepraio

      Marzo 8, 2017 at 11:16 am

      La penso come te, e so che in altri Paesi è già prassi. Tuttavia devo dirti che sono spesso i brand o le agenzie a chiedere esplicitamente di non menzionare la collaborazione.
      A me, quanto meno, è successo, ma a onor del vero si trattava di post dal carattere molto delicatamente promozionale.

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      • Elle

        Marzo 8, 2017 at 11:40 am

        Da quel che mi risulta se il post è “prezzolato” (passatemi il termine per semplicità) è necessario indicarlo *per legge*.

        Che poi non lo faccia nessuno, o che addirittura sia il brand o l’agenzia a richiedere di non farlo, è un’indicazione molto chiara della serietà sia dell’influencer che del brand o agenzia in questione.

        A me nessuno ha mai fatto una proposta seria di collaborazione: questo da un lato non è stupefacente (viste le tematiche del mio blog); ma da un altro forse sì, visto che “predico” non tanto di non comprare, ma di comprare “bene”, come investimento diciamo.
        Ma è ovvio che proporsi come “prodotto definitivo”, in qualsiasi categoria, non è da tutti; e probabilmente chi lo può fare non ha certo bisogno di me poverina per fargli pubblicità… 😉

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      • Brunhilde

        Marzo 8, 2017 at 11:52 am

        Brand ed agenzie dovrebbero essere anche a conoscenza del fatto che una simile prassi, in altri Paesi è illegale. Addirittura in «Un posto al sole» (ebbene sì, lo seguo dall’estero su Rai Play) ho notato che, all’inizio e alla fine di ogni puntata compare la scritta: «nel programma sono presenti inserzioni di prodotti a carattere pubblicitario» e, sebbene io sia poco esperta in campo giuridico, mi sembrerebbe strano che soltanto il campo della pubblicità su internet possa essere immune dall’obbligo di specificare quando si tratta di una pubblicità-sponsorizzazione.
        Tutto ciò mi porta alla fatale domanda: ma gli influencer fatturano? Hanno la partita IVA?.

        svgRispondi
      • Brunhilde

        Marzo 8, 2017 at 11:54 am

        (Ho replicato in fondo alla replica alla tua risposta – e me ne sono accorta solo adesso)

        svgRispondi
        • gynepraio

          Marzo 8, 2017 at 12:12 pm

          Di solito, fatturano regolarmente. La prassi che regola l’inserimento di prodotti sui mezzi di comunicazione di massa è regolata dalla legge sul Product Placement (che è legge). I blog non sono considerati alla stregua di mezzi di comunicazione di massa, e per questo al momento stanno in una sorta di “zona grigia”. Non tarderà ad arrivare una legge anche lì, immagino.

          svgRispondi
  • Lucia

    Marzo 7, 2017 at 5:46 pm

    Comunque io ho stirato l’ultima volta un paio di mesi fa e sto benissimo!

    svgRispondi
    • gynepraio

      Marzo 8, 2017 at 11:19 am

      Ho pochi vizi, ma disgraziatamente sono abituata a indossare anche mutande stirate. Non lo faccio io, chiaramente. Mi privo del pane quotidiano, e lo faccio fare a una signora #viziata

      svgRispondi
  • Rosaria Mainella

    Marzo 7, 2017 at 11:31 pm

    Ciao Valeria,
    condivido in pieno il tuo ragionamento ;-). Da utente ho imparato a fidarmi ( ed affidarmi agli) degli influencer che mi sono simpatici e mi sembrano affidabili e sinceri ( sto acquistando in questo esatto momento una my bottle!). Da azienda e consulente mi appassiono ( con notevole investimento di tempo) a diversi profili e provo a ritagliare ( immaginare, spesso) progetti “perfetti” ( a mio giudizio ) per loro, che inevitabilmente sono i miei preferiti, chiedendo spesso di valutare la collaborazione con un test di prodotti ( provalo e dimmi se può interessarti lavorare insieme a me).
    Dopo di che, per fare un esempio, non ti mando 2000 cialde con codice sconto allegato per fare un unboxing figo, ma vorrei inviarti 100 capsule compatibili con macchina Lavazza a modo mio perchè vedo che sono quelle che utilizzi. Vorrei entrare nella tua pausa caffè e vorrei che i tuoi followers possano conoscere la tua opinione sincera sul mio prodotto perchè solo facendo così potrò convertire veramente. 😉

    Bye

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    • gynepraio

      Marzo 8, 2017 at 11:24 am

      Di solito si sceglie il brand, e lo fa vestire all’influencer che ne diventa portavoce.
      Il processo contrario, cioè trovare la persona e cucire su di essa il progetto, è più raro ma, come dici tu, dà molta più soddisfazione e crea con l’influencer un legame molto più duraturo.
      Continua così, insomma.
      PS quando poi escono le capsule compatibili con macchine Caffitaly fammi uno squillo, che sto svenandomi.

      svgRispondi
  • Chiara

    Marzo 7, 2017 at 11:39 pm

    Il mettere in dubbio la loro funzione nasce da una semplicissima reazione istintiva che si ha fin da bambini: ciò che ci viene propinato per buono lo rifiutiamo a prescindere. Leggiamo per ore sotto l’ombrellone Musil e ci rifiutiamo di considerare l’idea di acquistare il decisamente più accessibile Hosseini, tanto caro al professore di Greco (sì, aneddoto personale). Andando nello specifico, perché dare così rilievo ad un’attività tanto comune?E perché non dare a Cesare ciò che è di Cesare? Quando l’ovvia analogia fra un qualsiasi influencer e il tanto bistrattato Mastrota, che ancora oggi si destreggia fra reti ortopediche e mountain bike, o l’ansimante Roberto Baffo da Crema sarà chiara, spero non siano in molti a sentirsi un po’ tonti per aver bellamente creduto che davvero quel “notorio” personaggio si stesse rivolgendo a loro come se fossero i suoi più cari amici e non per un mero guadagno personale (denaro, prestigio, soddisfazione, reputazione; insomma, tutto ciò a cui si attribuisce un valore economico e non). Perché non ammettere chiaramente che non stiano vendendo uno stile di vita, frutto di ricerche e consuetudini consolidate nel tempo? Se tale azienda non li avesse contattati attraverso comuni agenzie, neppure loro avrebbero saputo dell’esistenza di un tale prodotto, o addirittura di poterne avere necessità, e di come inserirlo nella propria routine. Perché, l’esigenza nasce dal bisogno e se il bisogno te lo crea la semplice visione dell’altrui possesso/utilizzo, si è consumatori passivi, inconsapevoli delle proprie reali esigenze ergo che si può facilmente abbindolare. Io continuo a pensare che se un’azienda abbia bisogno di servirsi di “cavie” che raccontino come sono i loro prodotti vuol dire essenzialmente che non ha assoldato una buona agenzia pubblicitaria o che non sia perfettamente in grado di dimostrare quanto sia efficace il proprio brand senza associarlo ad uno o più testimonial. Si potrebbe puntare sulla qualità, sulla ricerca, sulla competitività del prezzo, sulla valorizzazione del territorio e del rispetto dei propri lavoratori, e invece ci si affida a esseri, spesso di dubbia morale, a cui non affideresti neppure il tuo cestino dell’umido. In ogni caso, l’effetto è sempre quello di far cambiare radicalmente idea sul prodotto e sull’azienda. Concludo riprendendo, per sommi capi, quanto, già nel 2015, scrivevo in merito.
    Indurre gli inoccupati a scialacquare denari, pensioni et similia dei propri parenti, è quanto di più semplice si possa pensare.
    Provare a convincere una persona, conscia del costo della vita e delle responsabilità di un impiego vero, autentico, produttivo, attraverso chi ha dato via l’anima per una borsa made in Taiwan, che l’acquisto di quell’oggetto, che il suo possesso potrebbe, effettivamente, avere una sua intrinseca utilità, è tutt’altra storia.
    La credibilità del prodotto è la primigenia vittima di tante errate strategie pubblicitarie.
    Difficilmente, un individuo dal reddito (in)stabile acquisterà un prodotto, per la cui presentazione sono stati invitati, ospitati, foraggiati ed omaggiati, emeriti sconosciuti, non solo perché non conosce ergo non si fida del parere di costoro, ma, sopratutto, non vuole contribuire, nell’ottica di una matura e responsabile visione del quotidiano, ad uno spreco del genere.
    Sebbene gli italiani siano abituati, anzi, sadicamente felici quando ci si riferisce ad altrui privilegi, alcune aziende non dovrebbero farne il proprio vessillo ma, piuttosto, potrebbero impegnarsi a rimodulare i propri piani di promozione, e a delineare un nuovo tipo di linguaggio: perché, sia chiaro, “l’adolescente viziato” non è, di certo, il cliente tipo da fidelizzare.

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    • gynepraio

      Marzo 8, 2017 at 11:32 am

      La differenza tra l’influencer e l’imbonitore secondo me sta anche nella capacità di fare scouting anche quando non è prezzolato.
      In questo senso, il bravo influencer alterna collaborazioni retribuite ad altre raccomandazioni gratuite, nate dalla sua esperienza di “consumatore professionista”.
      Quanto all’inefficacia delle strategie di comunicazione classiche (pubblicità in primis), io purtroppo penso che esse siano in generale superate, oltre che inaccessibili ai brand più piccoli.
      Il ricorso agli influencer e alla loro capacità di comunicare esattamente alla nicchia di consumatori su cui sono appunto influenti è un modo per massimizzare i risultati e riproporzionare gli investimenti. Con la pubblicità classica e con i costi del media ATL, questo non è economicamente possibile.

      svgRispondi
      • Mila

        Marzo 8, 2017 at 2:58 pm

        Grazie per aver fatto luce su questo tema così sconttante…. e che, sinceramente, ha spaccato i marons da un po’… analisi perfetta…condivido!!!

        svgRispondi
  • patalice

    Marzo 9, 2017 at 11:13 pm

    un post che lascia all’ironia il suo migliore utilizzo

    credo che, noi blogger di frontiera, che scriviamo con grande amore, ma senza grandi guadagni (il noi è un pluralis maiestatis… parlo di me, di te non so bastevolmente), guardiamo con un po’ di invidia e malcelata antipatia, agli influencer, visti e salutati come eroi del nuovo millennio, come novelli Mike Buongiorno per mia nonna; che se lui, tra un “allegria” e l’altro, consigliava il Parmacotto Rovagnati, in salumeria si comprava solo quello… punto, basta e stop!

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    • gynepraio

      Marzo 13, 2017 at 11:50 am

      Sarà per questo che continuo a comprarlo, ahahah?

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  • Chiara

    Marzo 14, 2017 at 8:39 pm

    Ciao Valeria! Bellissimo post, utile sia a chi non ne sa, chi ne sa poco e chi ne sa abbastanza. Credo anche che la poca informazione dei meccanismi che riguardano gli influencer sia per il fatto che rimane comunque ancora un fenomeno poco conosciuto e soprattutto poco compreso, condito da pizzichi d’invidia anche. Nel senso che finché si leggevano online post e tweet di persone che diventavano famose solo per la mera comunicazione o anche per scambi di consigli ma spontanei, andava tutto bene; solo quando pochi sono riusciti a trasformare il tutto anche in un guadagno, apriti cielo per gli altri. Io non ci vedo assolutamente nulla di male anzi, penso che tanti di coloro che hanno cominciato a dire semplicemente la loro in internet e che poi ce ne stanno guadagnando ora (penso alle youtuber di makeup in primis ma poi a tutti gli altri), non credo avrebbero pensato di ricavarne profitto in maniera più o meno consistente rispetto a come fanno adesso. Poi se la giocano tutta sulla reputazione e sulla coerenza tra passato e presente, stando attenti appunto a cosa sponsorizzano o no e si vede subito chi si svende davvero. Alla fine sono comunque d’accordo che tutti rimaniamo influenzati dagli altri, volente o nolente: le borsine in tela credo diventeranno una prossima idea di regalo anche per me!;)

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    • gynepraio

      Marzo 15, 2017 at 2:12 pm

      Te le consiglio, hanno reso felici tutte le nipoti!

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  • virginiamanda

    Marzo 26, 2017 at 10:43 am

    Ci ho messo un po’ a trovare un commento adatto a questo tuo post che mi bazzica in testa da quando l’hai pubblicato. Ho nelle bozze un post con la mia opinione sul tema da almeno un anno.
    Detto questo, ma ti offendi se ti confesso che da tutte quelle che hai citato come esempi (tu e Tegamini escluse) io non comprerei assolutamente nulla?
    La differenza la fa quello che tu hai citato varie volte che per me è il punto centrale: lo stipendio.
    Chi già lavora e ha uno stipendio fisso al mese che entra comunque, marchetta più, marchetta meno, si può permettere di dire no a progetti non sulle sue corde. Quel tipo di blogger è il tipo che rispetto di più: lavori e vieni retribuita comunque. Se accetti è perché ti piace. Bene, me lo proponi, se non mi convince passo oltre, ma sono bendisposta a sentire cosa hai da dire.
    Nel caso di Connie, Machedavvero e (ci aggiungo pure, anche se tu non l’hai nominata qui) La Spora, quello che mi è stato raccontato in questi anni di blog è: tanta insicurezza, incertezza monetaria, difficoltà a trovare un lavoro, difficoltà a lavorare dopo la maternità, difficoltà a lavorare con la partita iva, difficoltà a trovare un luogo dove poter lavorare come free lance, clienti che non pagano bene, che non pagano, che maltrattano… in questo clima, qualsiasi consiglio commerciale viene da me rifiutato in toto.
    Poi hai voglia a dire che loro “lavorano nella comunicazione”, o che sono “preparate”, per me rimangono delle persone con un blog che non sanno come sbarcare il lunario.
    Questo credo di non percepirlo solo io e forse è quello che infastidisce di più.

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    • gynepraio

      Aprile 7, 2017 at 11:00 am

      Il fatto di non dipendere materialmente dalle proprie opinioni prezzolate renderebbe le opinioni delle blogger più credibili e spontanee? Boh, non lo so. Io ne faccio più una questione di autorevolezza. Se sei preparata sul fronte moda e design, non mi interessa che quella maglia te l’abbiano regalata se: a)è bella, b)ci costruisci sopra uno styling interessante e c)sei convincente. Se poi mi fai sognare, mi fai desiderare di essere come te, se sai creare aspirazione, beh, allora per me hai fatto bene il tuo lavoro.
      Purtroppo qualsiasi professionista del marketing, inclusi quelli che non si espongono come il brand manager che mette a punto un buon prodotto o il copywriter che crea una campagna straordinaria, lo fanno per denaro. Credo che per sganciarsi da questo meccanismo dovremmo andare a vivere tra i boscimani: forse se la professionalità degli influencer venisse riconosciuta e retribuita, potrebbero accettare progetti più in linea con i loro profili e uscire dalla spirale perversa di fatture inevase/clienti stronzi. Ma lo sapremo tra un po’ di anni, quando il mercato italiano finalmente si sarà adeguato a uno standard che fuori dai nostri confini è la norma.

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