Con il consueto ritardo che caratterizza il mio rapporto con le serie TV, sabato ho finito Thirteen Reasons Why, la serie prodotta da Selena Gomez e distribuita da Netflix che è recentemente stata oggetto di discussione e riflessione da parte di tutti-tranne-me-finora.
Per chi non l’avesse vista, Thirteen Reasons Why è un lungo e tardivo j’accuse da parte della diciassettenne statunitense Hannah Baker nei confronti di coloro che, attraverso atti di ostilità-bullismo-violenza-sopraffazione-omissione hanno contribuito al suo suicidio. Tardivo in quanto queste audiospiegazioni sono incise su una serie di audiocassette che vengono ascoltate e divulgate solo quando la protagonista è già morta.

La locandina della serie
Inizio subito col dire che a me non è piaciuta molto. In primis, ho trovato gli episodi spropositatamente e inutilmente lunghi rispetto al necessario. Per dirla à la Hitchock, non c’è sorpresa perché Hannah muore al minuto 0, ma è evidente l’obiettivo di creare suspance perché il quadro psicologico di Hannah vittima e delle sue relazioni si comprende solo alla fine: l’intento è corretto, ma io avrei semplicemente ristretto il brodo. Almeno per i primi 8 episodi, la tensione era così bassa che ho continuato fino alla fine solo grazie all’insistenza da parte di alcune persone (grazie Paola!). Non penso che seguirò la seconda serie ma Thirteen Reasons Why mi ha comunque fatto pensare a un sacco di cose
La calunnia è un venticello, e il bullismo è il suo figlio primogenito. Tutti i problemi di Hannah cominciano con il diffondersi di voci false sul suo conto, che corrono di bocca in bocca e che, in apparenza, non sono così negative: è nominata nella classifica delle ragazze più appetitose del suo anno, ha una rapida e sfortunata liaison con uno dei ragazzi più carini della scuola. La colpa di Hannah, fondamentalmente, è di essere ingenua prima, e inerme dopo.

Una vittima di bullismo molto carina e poco sfigata
Il bullismo è subdolo e si annida ovunque. Come dicevo già qui, sono finiti i tempi di De Amicis: il bullo non è Franti, ma Derossi. Sempre più spesso, è popolare, ricco, bello e con una reputazione da difendere: per questo motivo, intimidazioni e minacce sono sottili e basate sul meccanismo perverso del ricatto e della vergogna, più che sul semplice automatismo della violenza.
La scuola ne esce male. Nel liceo americano descritto in Thirteen Reasons Why c’è un counselor a servizio degli studenti che soffrono e ogni ragazzo ha un advisor che ne segue i progressi: siamo lontanissimi dall’italica Buona Scuola in cui i ragazzi vengono mandati in corridoio a farsi un giro se si comportano male. Il limite del modello statunitense sta nelle priorità: è il gesto estremo (=il suicidio) a destare preoccupazione, e non la sua causa (=il bullismo)*. Questa cosa, tristemente, viene fuori anche ascoltando lo speciale “Beyond the reasons” che segue l’ultimo episodio, in cui autori e produttori raccontano lo spirito che ha animato tutta l’opera: si insiste molto sul fatto che bisogna parlare, aprirsi, non tenere dentro il proprio dolore, perché il suicidio non è una soluzione percorribile. Sulle possibili genesi della mentalità bulla, sulla violenza sessuale sottile, a mio parere si dice molto poco.
I genitori americani vogliono stare senz’ penzieri. I peggiori se ne vanno in vacanza e lasciano i figli adolescenti a casa soli per intere settimane. Alcuni, negazionisti fino al midollo, si rifiutano di pensare che i loro figli siano sostanzialmente dei bulli. Altri, hanno solo delle grosse fette di prosciutto sugli occhi. Hannah non ha nemmeno un’amica, già da prima di subire del bullismo; esibisce un umore quasi sempre nero, i suoi voti peggiorano, trascorre una intera estate senza vedere nessuno. I suoi genitori non sono una coppia sfasciata che vive nel degrado, anzi è evidente che amano oltremodo loro figlia: eppure scoprono la trama di esclusione, solitudine e rifiuto che circonda la figlia solo dopo che essa è morta.
Che ci tocchi rivalutare le madri apprensive e invadenti? Se a 17 anni io non avessi mai menzionato nessuna ragazza, se non mi avessero mai fisicamente vista uscire con qualcuna o studiarci insieme, beh, mia madre due domande sul mio sviluppo emotivo-relazionale se le sarebbe fatte prima. Mia madre mi pesava con gli occhi e alla prima oscillazione di peso percepibile si insospettiva. Mia madre sapeva che sarei stata lasciata dal mio ragazzo prima ancora che lo sapessi io, e probabilmente prima che lo decidesse lui: e non perché abbia un dottorato in psicologia adolescenziale problematica ma perché era una buona osservatrice.
L’angosciante concetto di corresponsabilità. La morale che adolescenti e adulti possono trarre dalla serie è che dei gesti spesso involontari, frutto di superficialità e quasi innocui se presi individualmente, accumulandosi l’uno sull’altro possono irrimediabilmente ferire chi li subisce. Il monito è pensarci ben bene prima di escludere qualcuna, farci un catfight e darle uno schiaffo, fregarle il ragazzino, incoronarla “culo più bello del secondo anno”: sono alcune delle angherie che subisce Hannah ma che -non penso di dire nulla di falso o impopolare- sono cose che accadono continuamente nei rapporti tra ragazzi. Dalla vicenda di Thirteen Reasons Why, sembra che siamo tutti dei potenziali elefanti nel negozio di porcellana dei sentimenti altrui: non conosciamo le storie che stanno dietro a ognuno e possiamo con pensieri, parole, opere e omissioni (semicit.) concorrere ad allargare la macchia dell’altrui dolore. Non potete immaginare quanto mi affligge questo onere di corresponsabilità, l’idea che pur non incorrendo nel penale vero e proprio tutti possiamo renderci complici della sofferenza d’altri.
Sarà che sono una persona che spessissimo commette passi falsi, perché ho le tendenza a parlare troppo presto, a ironizzare molto e subito anche in presenza e sul conto di persone che non conosco sufficientemente bene, perché sono campionessa mondiale di gaffes. Sbaglio a nutrire la speranza che lo spirito di autoconservazione porti chi si sente turbato dal mio modo di fare a mandarmi bellamente a cagare (cosa che peraltro mi accade piuttosto spesso) anziché chiudersi in una stanza con pensieri autolesionisti? C’è un modo di insegnare ai figli a ironizzare, accettare l’altrui ironia fino al giusto punto oltre il quale è giusto difendersi?
Qualcuno me lo dica, grazie.
*un po’ come temere gli atti terroristici, e dimenticarsi di fare una politica estera da schiacciasassi imperialista, diciamo