C’era un’epoca in cui le imprese, nel comunicare online, ci tenevano a risultare rigorose, mantenendo il divario tra il linguaggio ingessato degli addetti ai lavori e quello sbracato dei privati cittadini: i primi intenti a creare e difendere una reputation, i secondi animati da scopi più ludici. É arrivato poi qualcuno che ha spiegato alle aziende che le distanze comunicative andavano abbattute perché i consumatori si sentivano alieni rispetto al brand: ci volevano toni più caldi. Lì si è visto l’uso del tu, sono apparsi sprazzi d’ironia ed exploit di umanità.
I freelance, rispetto alle imprese, a questa presa di coscienza sono arrivati prima. Usavano l’ironia prima che venisse sdoganata anche dai grandi brand, avevano un approccio soft che è -insieme ai prezzi concorrenziali- una delle ragioni per cui un cliente dovrebbe affidarsi a un individuo singolo anziché a una agenzia o a una società. Io amo i freelance, vivo con uno di loro e se fossi meno cagasotto farei anch’io parte della categoria. Perché i freelance siano così tanti, è presto spiegato: l’esercito dei battitori liberi accoglie persone provenienti da mille lidi. Ex dipendenti licenziati o dimissionari, pensionati che erogano consulenze, hobbisti che vorrebbero diventare crafter a tutti gli effetti: tutte queste figure si tramutano in freelance. Mi affascina la loro vita. Siccome sono scema, mi fanno sognare la palestra alle 10 del mattino, l’home office pieno di cancelleria kawaii, il caffè con gli amici del coworking, i figli recuperati all’asilo alle 16:30 e questo spirito di iniziativa che alcuni sanno portare avanti con abilità straordinaria: il freelance, specialmente se giovane e operativo sul web, possiede capacità trasversali ed è in grado di fare progetti consulenziali, erogare corsi ma anche montare un video autopromozionale, scrivere il codice del proprio sito, scattare ed editare foto. Leggo regolarmente e consiglio a tutti i contenuti della comunità per freelance cpiub, dove ho imparato nozioni e prassi utilissime anche per me che sono una lavoratrice dipendente.
Insomma, il freelance per me è un microimprenditore che si accolla tutti i rischi e sI muove leggiadro in un’ammirevole coreografia multitasking.

La scrivania del free lance secondo me
Tornando al tema della comunicazione, si è assistito negli ultimi anni a un progressivo appropriamento culturale, da parte delle aziende strutturate, del linguaggio dei freelance: toni più caldi e friendly, coinvolgimento dei dipendenti nelle campagne pubblicitarie, riallocamento del budget dai canali pubblicitari tradizionali verso quelli digitali e conseguente riduzione del budget. Il povero freelance squattrinato, che aveva investito in gentilezza e dettagli, che spendeva 5 euro nei post sponsorizzati su FB e faceva digital PR casalinghe chiedendo ai suoi clienti di indossare i suoi gioielli handmade, si è visto imitato dai grandi brand.
Allora per differenziarsi ha usato l’unico strumento delle quali le aziende strutturate non possono avvalersi: la sua vita privata. Perché l’azienda potrà essere cool, avere prezzi competitivi, una reputazione impeccabile, eccellere in Corporate Social Responsibility, potrà financo risultare simpatica ma non ha una casa in cui farti entrare. L’azienda avrà uffici e magazzini, ma il freelance ha un bagno in cui mostrare il suo trucco-da-Skype-call-con-pantaloni-del-pigiama-sotto-che-tanto-non-si-vedono.
Ed è così che molti freelance hanno volontariamente scelto di raccontarsi nel bene e nel male. Questa espressione, nella mia lingua, significa offrire un racconto della propria attività professionale in cui si smorzano i toni eccessivamente entusiasti per offrire un quadro più realistico della situazione. Purtroppo, però, complice il fatto che i freelance hanno un unico account per la vita privata e professionale, spesso si traduce in “alternare racconti in cui il freelance sembra un professionista affidabile con altri in cui rivela i retroscena duri, prosaici e financo brutti della sua vita privata.”
Ecco, io non sono sicura che questo sia esattamente un bene. Specialmente quando questa scelta viene portata alle estreme conseguenze e -confortati da un mezzo come Instagram Stories i cui contenuti “decadono” dopo 24 ore- si verificano alcuni fenomeni.
Raccontarsi nel bene e nel male: Mix letale di sacro&profano
Se sono un cliente attuale o potenziale e ti seguo sui social, seguire una diretta Instagram di natura professionale (cioè in cui si parla di un tema vicino al tuo mondo lavorativo) in cui sei struccata e scarmigliata non penso aggiunga molto alla tua credibilità o autorevolezza. Se sono un tuo amico, sentirti parlare di reach organica non mi interessa e preferirei chiacchierare con te di argomenti extralavorativi. Come sempre, tra la salopette e il tailleur nero penso ci siano molte alternative intermedie.
Raccontarsi nel bene e nel male: Scostare il velo e farlo cadere
Aprire i riflettori sulla propria vita privata può avere senso, ma secondo me condividere eccessivamente i propri crucci personali (famigliari, genitoriali) non è particolarmente utile alle orecchie di clienti attuali e potenziali. Idem raccontare con troppi dettagli le proprie scelte strategiche o peggio ancora le lamentatio economiche.
Raccontarsi nel bene e nel male: Behind the scenes
Il dietro le quinte è bello, ma a piccole dosi. Il rischio è svelare troppo e uccidere la magia del risultato finale. Il making-of di un set fotografico o lo step by step di una ricetta possono essere ok, invece l’abbuffata di molletta&pigiamone che stanno dietro un paper redatto nottetempo forse no. Il discorso del viaggio importante quanto la méta è apprezzabile, ma spesso mostrare la miseria del processo non aggiunge niente alla bellezza del risultato.
Raccontarsi nel bene e nel male: Distonie fastidiose
Ne ho parlato con un’amica, ancor più addentro al settore di me, secondo la quale le influencer fortemente “aspirazionali” (=carine e di successo, credibili, con uno stile di vita invidiabile e collaborazioni prestigiose all’attivo) mostrano i downsides della propria vita per riequilibrare un po’ il karma e non sembrare troppo irraggiungibili, salvando così l’effetto identificazione. A me però è capitato di pensare che la stessa figa imperiale che 24 ore prima indossava un abito da sera alla prima di un prestigioso show non può concettualmente essere la stessa che deve stirare una pila di panni, no, non serve, sii ancora quella di ieri, per favore, lascia che quella sfigata resti io. Mi fa un po’ l’effetto della Barbie curvie: carina come idea, ma ridatemi quella irrealistica.
Raccontarsi nel bene e nel male: La decisione a tavolino
Le stesse persone che fino a 6 mesi fa non sarebbero nemmeno scese a comprare lo Svelto senza truccarsi hanno improvvisamente cominciato a mostrarsi in rete con le pantofole, le stesse che non avrebbero rivelato al mondo il loro colore preferito le ritroviamo a raccontare i contenuti delle loro sedute di psicoterapia. Ecco, io credo che essere spontanei non significhi “essere a proprio agio nel parlare di sé”: quella si chiama disinvoltura. La spontaneità non si riduce a una decisione strategica o una tecnica che si impara, ma è una cifra comunicativa che a qualcuno appartiene e ad altri no. Non lo dico perché sono una spontanea e voglio difendere la mia squadra -che poi spontanea a chi, a me? Io a mostrarmi in video completamente struccata e coi capelli sporchi ci penso non una, non due ma dieci volte!- ma perché da fuori si percepisce, che c’è una strategia dietro al mostrarsi al naturale, esattamente come c’è una strategia dietro al mostrarsi sempre impeccabili e inamidati.
Non so se la scelta di raccontarsi nel bene e nel male alla fine dell’anno paghi davvero. Mi piacerebbe che qualche free lance mi desse il suo punto di vista, e, se ha visto dei risultati, ne parlasse apertamente.
Raccontarsi nel bene e nel male: DUE ARTICOLI CHE MI HANNO FATTO PENSARE
Alcuni articoli sul tema che mi hanno fatto pensare sono questi: articolo 1 e articolo 2
2 Comments
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shamja
Dicembre 8, 2017 at 3:19 pm
ciao..sono una freelancer..sono d accordo con quello che dici..per me il lavoro deve rimanere fuori dall aspetto privato dei social che personalmente cerco di usare con educazione a prescindere. Non amo le esibizioni ne le autocelebrazioni….ciaociao
gynepraio
Dicembre 18, 2017 at 6:50 pm
Vedo che siamo d’accordo allora!