Durante le sessioni di Q&A una delle domande che mi vengono rivolte più spesso è “come ti cambia la maternità?”. Io di solito metto una foto di me con un trattore, come paradigma dell’impensabile: l’amore materno mi ha portata a fare una gita domenicale in una fattoria e appoggiarmi contro un trattore infangato.

Io che rido vicino a un trattore, parliamone
Tutti danno per scontato che avere un bambino, in qualche modo, ti cambi. Quello che non ti dicono è che sotto sotto, nelle segrete della loro anima, in un posto dove credono che nessuno riesca ad arrivare, pensano che tu sia cambiata in peggio. Però, siccome è un cambiamento quasi fisiologico, un po’ come il metabolismo che dopo i 50 rallenta, si sforzano di non far trapelare questo giudizio morale, o non fartelo pesare eccessivamente.
Però, dopo aver inviato la foto di Valeria-ragazza-di-campagna, ho pensato davvero al modo in cui sono cambiata.
Mi disinteresso delle situazioni imbarazzanti. Allattare, risultare grassa, malvestita, assonnata. Portare in giro un bambino che urla, fa il matto, piscia sui cuscini in lino crudo di un bar di lusso dove chiaramente mai più tornerò. Non sono diventata altrettanto generosa col prossimo, cioè se i figli degli altri si comportano come scimmie del Borneo impazzite torna ancora la stronza giudicante di un tempo. Però, anziché pensare “ma passagli la testa sul gas” mi dico “per fortuna non è il mio”.
Apprezzo la comodità. Che prima consideravo un disvalore. Essere “comodo” significava essere brutto, quindi non visto. Ho trovato un modo per integrare la comodità nella mia vita, l’ho interpretata e forgiata su di me. Temo di essere meno sexy di un tempo -posto che mai lo sia stata, visto che mi vesto da suora laica dal 1982- ma me ne sono fatta una ragione.
Uso fino in fondo il tempo che ho. Se dicessi che faccio molte meno cose adesso che ho un bambino direi una bugia. Semplicemente, ci devo pensare con maggiore preavviso e le faccio in maniera molto più sofferta, partecipata, emotivamente pensata: quando finisco un libro o una serie TV, ne sono così colpita che sono capace di pensarci per giorni (ne avevo parlato in questo post sulla bulimia di contenuti). Talvolta sono di fretta e non godo del momento quanto vorrei, ma questo mi accadeva anche prima, quando avevo tempo da vendere eppure ne sprecavo a manate. Le cose su cui ho compiuto una rinuncia consapevole sono il cinema e i viaggi, ma come ho spiegato più volte lo considero solo uno stop momentaneo e non un sacrificio a tempo indeterminato.
Ho imparato a leggere e recitare. Fino a meno di un anno fa, a Elia non piacevano i libri. Non l’avevo presa molto bene: me lo vedevo rapato a zero, vestito come un hooligan da film di Ken Loach, a fare risse per le strade di periferia e ingravidare minorenni sbandate. Poi è successo qualcosa -forse ho smesso di pensarci?- e adesso gli piacciono: sono tornata a immaginarlo mentre, appena ventiduenne, tiene il suo primo discorso alle Nazioni Unite sull’importanza dell’istruzione infantile nei Paesi in via di Sviluppo. Per incoraggiare questa passione, sono diventata più versatile di Mago Zurlì, Tonio Cartonio e Uan messi insieme. Faccio tutto io: voci, versi, dialoghi, doppiaggio, financo i sottotitoli. Ultimamente ci stiamo dedicando a “Il signor Vroum” la storia di un pilota frettoloso: con l’occasione mi sono impratichita sui rumori di accelerata, frenata brusca, vento nel capelli, fischio del turbo. Vi invito a dare un’occhiata alla collana di libri distribuiti da UPPA, la casa editrice specializzata nei temi della genitorialità e dell’infanzia. Fino al 28 novembre con il codice GYNEPRAIO20 potrete acquistare uno o più volumi con uno sconto del 20%: oltre a libri per bambini adorabilmente illustrati, ci sono anche diversi manuali per genitori.
UPPA (che sta per “Un pediatra per amico”) è anche una rivista bimestrale indipendente e priva di pubblicità destinata ai genitori e scritta da pediatri, pedagogisti, psicologi specialisti dell’infanzia. È distribuita su abbonamento ma la trovate anche negli ambulatori del Sistema Sanitario Nazionale, in molti consultori, biblioteche e altre strutture di assistenza alla maternità: da abbonata l’ho sempre trovata vera e autenticamente utile.
Sono diventata più creativa. Elia mi ha regalato inventiva e spirito di iniziativa. Ha accorciato la distanza tra idea e azione: dal momento in cui si presenta un bisogno a quello in cui trovo una soluzione passa pochissimo tempo. So interpretare i segni e i segnali. Riesco a cogliere il lato più “challenging” di certe esperienze, soprattutto se le affronto da sola: le giornate intere fuori casa, le trasferte in auto, un po’ di ignoto a piccole dosi. Quasi sempre mi fido di Elia, e di solito faccio bene.
Mi interrogo (ancora di più) su me stessa. Mio figlio mi ha messo di fronte alle cose di me che non amo e che non vorrei trasmettergli, anche se forse è un po’ tardi per ravvedersi. L’uso esagerato di parole tranchant come “mai più”, “per sempre”, la lingua troppo lunga, l’atteggiamento fortemente teatrale e sentimentale, parlare tantissimo e continuamente, una fastidiosa tendenza a mediare e contrattare praticamente su tutto. Gli ho sbrodolato addosso il mio bisogno di varietà, di opzioni, di scelte, e nonostante le migliori intenzioni non riesco ancora a mostrarmi decisa e decidere per lui.
Sono diventata ansiosa. Questo è un tremendo downside. È un’ansia che non riguarda la mia persona: quasi mai provo paura per me. Anzi, se devo dirla tutta, mi sento piuttosto spavalda per quanto riguarda la mia salute o la mia sopravvivenza. Anche nel caso di Elia, raramente temo che che contragga terribili malattie o anche solo un brutto raffreddore: io ho paura degli incidenti e degli eventi traumatici come cadute, urti, ferite, lacerazioni. Sarà perché in ben due occasioni si è fatto male sotto i miei occhi e praticamente da fermo, o forse perché mi sono confezionata l’idea che sia un po’ goffo, ma io ho il terrore perenne che si faccia male. Questo mio timore, come spesso succede con i bambini, è tristemente “predittivo”, perché spesso Elia cade, dà testate e botte a caso, prende pali sul naso. Ogni volta che si fa male, un pezzetto di me muore dentro, lo giuro.
Sono diventata un’ammiratrice silenziosa. Io non sono mai stata fan di nessuno: niente cantanti, attori, sportivi, supereroi. Non ho mai puntato i piedi per andare a un concerto del Take That, non ho mai appeso poster in camera da letto. Sono troppo concreta e calata nella realtà, per idolatrare o anche solo apprezzare creature distanti e irraggiungibili. Preferisco i role model: persone che mi sono vicine -geograficamente, anagraficamente, culturalmente- e che con il loro comportamento mi ispirano. Persone che, senza saperlo, mi indicano la via dell’adeguatezza. Si tratta di una ammirazione silenziosa (da parte mia) associata a un mentoring inconsapevole (da parte loro): ne ho sempre avuti, a scuola, all’università, sul luogo di lavoro. Per me è stato naturale, quando è arrivato Elia, cercarne alcuni e tenermeli ben stretti, come un album di famiglia da aprire quando le cose non vanno bene o quando mi sento inadeguata (spoiler: accade spesso).
Mi piacerebbe dire grazie a tutte le amiche o persone che mi hanno riportata in carreggiata solo con l’esempio o con la loro esistenza. Quando vorrei riposarmi, penso alla mia amica L. che ha scelto di tenere con sé i suoi due figli fino ai 3 anni, ha rivoluzionato la sua casa e la sua routine per loro, inventa mille giochi, non ha nemmeno la TV, e nonostante ciò non sembra mai stanca. Oppure penso alla mamma di un compagno di Elia che è una pediatra, ha già due bambini, ha partorito altri due gemelli meno di un mese fa, li sta allattando esclusivamente al seno eppure cammina così leggiadra che ogni lingua divien tremante e muta, altro che Dante e Beatrice.
Oppure quando -per via di un malumore mio, o dell’esasperazione che qualche suo comportamento mi ha generato- parlo a Elia con un tono ingiustificatamente brusco, penso alla mia amica E. che mai ho sentito alzare la voce o rivolgersi alle sue figlie in modo irrispettoso, superiore, autoritario. Quando mi sembra di annoiarmi, penso alle persone piene di risorse: M. che cucina con suo figlio traendone sincero divertimento, E. che conosce tutti gli angoli e le iniziative kid-friendly della città, V. che s’inventa mille lavori di bricolage per intrattenere sua figlia.
Il consiglio che vorrei dare alle mamme in attesa, oltre alla lista dei libri da leggere quando ci si prepara all’arrivo di un neonato (che trovate qui e che ho recentemente aggiornato), è di guardarsi attorno, trovare e scegliere dei modelli positivi ai quali aggrapparsi. Funzionano, parola mia.