Il 20 febbraio 2020 è uscito Negli ultimi giorni è uscito “Bastava chiedere! Dieci storie di femminismo quotidiano” della fumettista francese Emma, sorprendentemente edito da Laterza quindi una casa editrice non votata al genere comics, con prefazione di Michela Murgia. Per una volta sono stata anticipatrice perché l’avevo già in parte letto nel 2017, ricorrendo al poco francese che conosco, recensendolo e scrivendo un po’ di pensieri in merito.
BASTAVA CHIEDERE: IL CARICO MENTALE SECONDO ME, NEL 2017
Credo di aver vissuto tra giugno e luglio la cosa più simile a un tracollo nervoso che mi sia mai capitata. Ho spiegato, con la verbosità e dovizia di dettagli che contraddistingue i miei sfoghi, a diverse persone perché mi sentivo così. Da molte di esse ho ricevuto affetto, vicinanza, solidarietà -e probabilmente pietà, perché ho pianto molto e inopportunamente- che ho apprezzato tantissimo. Sono certa che altrettante persone hanno pensato che esagerassi, che sono una debole con manie di persecuzione e una teatrale tendenza a simulare il martirio. Atteggiamento, quest’ultimo, del quale mi scusavo pochi minuti dopo perché possa un asteroide colpirmi se io sono tra quelle menagramo che cerca di convincervi che la maternità è solo un tunnel di fatica ed espiazione, e NO, non tutti i bambini dormono a comode rate e si svegliano 19 volte per notte e NO, ve lo giuro, non tutti i bambini mettono 5 denti in un mese, ma il mio sì, che vuoi farci, mica lo fa apposta.
Penso di non essere stata capace di illustrare appieno perché mi sentivo così disperatamente stanca e lamentosa da non riuscire a godere dei lati positivi della mia vita, così demotivata e incapace di guardare oltre l’ostacolo o fare piani per il futuro. Quando ho analizzato il perché di questo crollo fisico-emotivo insieme al mio compagno, ci siamo messi a scomporre la nostra vita famigliare per comprendere dove stava il fardello che pesava sulle mie spalle. Forse perché lui per natura sminuisce minimizza, dall’analisi scaturiva che:
- abbiamo una persona incaricata di tutti i lavori domestici tranne cucinare
- mangiamo cibi semplici, se necessario anche muschi e licheni, quindi anche cucinare non è pesante
- abbiamo semplificato e automatizzato la burocrazia e la contabilità famigliare, quindi non sono attanagliata dal paperwork
- Elia sta al nido dalle 9 alle 18, quindi mi occupo personalmente di lui al massimo 4 o 5 ore al giorno
- non lavoro in miniera al turno di notte e non sono vittima di mobbing
Sostanzialmente il mio punto debole sarebbe la quali-quantità del sonno, che, ha decretato lui, non è di per sé causa sufficiente a determinare il tuo malessere. Il mio livello di stanchezza era così allarmante che non ho avuto nemmeno le forze per argomentare e fare un elenco puntato delle altre fonti di stress corresponsabili di questa stanchezza: il cambio di lavoro e la malattia di mio padre, per dirne un paio. Perché la risposta sarebbe prevedibilmente stata questa: “Il nuovo lavoro è vicinissimo, non devi più attraversare la città e ti piace più del precedente; quella di tuo papà è una malattia guaribile e se n’è occupata tua madre al 100%”.
È una logica schiacciante, quella di chi ignora il concetto di carico mentale. È un modo di ragionare maschile più semplice, che è difficile confutare senza finire nel terreno periglioso delle rivendicazioni, della gara a chi si sbatte di più, del martirio, dei tu non sai niente, dei poverina detti con sguardo di compatimento. Sono stata felice di leggere questo weekend alcuni articoli, il migliore dei quali mi è parso questo, che spiegano in concetto di carico mentale partendo dalle illustrazioni della francese Emma, femminista, mamma e autrice di “Bastava chiedere”.
Il carico mentale, per citare Giulia Siviero, è “il peso di tutte quelle acrobazie cerebrali, invisibili, costanti e sfiancanti che portano, per il benessere di tutti e il funzionamento efficace della casa, generalmente le donne”. Non voglio limitarmi a citare una definizione: ho anche coniato una similitudine. Avete presente la mucca che ha uno stomaco destinato a digerire alcuni nutrienti? Ecco, io sento di avere un cervello che svolge le normali operazioni, e un secondo cervello costantemente concentrato a pensare a far quadrare le cose.

Si chiede alle donne di organizzare tutte le attività e di eseguirne oltretutto una gran parte: significa che a loro compete il 75 percento del lavoro. Questo è ciò che chiamiamo “carico mentale” (dalla versione francese originale di “Bastava Chiedere”, traduzione mia)
Detta così, sembra che io abbia un disturbo ossessivo-compulsivo e non sappia delegare, ma è il contrario! Proprio perché so di essere una control freak ho ridotto ai minimi termini l’agenda, le complicazioni, gli impegni, gli interlocutori, i giri, la logistica inutile, gli orpelli. Rinunciare alla complessità, per una come me che si fregiava di avere una vita ricca, è stato un sacrificio. Questo sforzo di semplificazione ha un costo: pensare al modo migliore per fare le cose è faticoso quanto metterle in atto o delegarle alle persone giuste. Infine, insieme all’onere organizzativo, c’è la responsabilità: perché da me ci si aspetta risposte. È a me che vengono fatte le domande: al plurale, gentilmente, senza pressioni, ma non senza aspettative. Cosa gli facciamo da mangiare? Come possiamo aiutarlo a dormire? Lo vacciniamo per la varicella? La mia visione dall’alto e di insieme è fondamentale: quando faccio quadrare le cose, mi sento un top manager da classifica di Forbes. Compio certi adorabili salti carpiati, tipo suddividere i miei vestiti vecchi in sacchetti di media dimensione, portarli da HM, ricavarne dei buoni acquisto e reinvestirli contestualmente nel corredino stagionale di Elia che ho scelto la notte precedente sul lookbook del sito.
BASTAVA CHIEDERE: IL CARICO MENTALE E IL CONGEDO DI MATERNITÀ
Io credo che molta di questa leadership, o autorevolezza, io l’abbia acquisita nei tempi tecnici concessi dal nostro sistema previdenziale: le settimane di gravidanza che ho passato a casa informandomi e facendo ricerche, i primi mesi del congedo di maternità durante i quali ho letto manuali e sperimentato soluzioni. È stato un percorso anche divertente: scoprire un mondo che non conoscevo, compiere scelte, confrontarmi con nuovi interlocutori.

Durante questo periodo, oltre a riprenderci dai punti di sutura e dai sonni interrotti, dobbiamo anche interiorizzare tutto ciò che serve a gestire un neonato: la tata, i vestiti, gli appuntamenti dal medico, i pasti (dalla versione francese originale di “Bastava Chiedere”, traduzione mia)
Questo lavoro intellettuale mi è servito ad acquisire sicurezza e a sentirmi -anche se con notevole discontinuità e crolli di autostima- in grado di prendermi cura di Elia: è stato ed è tuttora bello vedere che a fronte di alcune mie scelte mio figlio mi ha seguito, docile, riconoscente e spesso felice! Non ho problemi a prendermene il merito, e bearmene. Non ho nemmeno problemi ad ammettere che a volte la ricompensa è scarsa, perché mio figlio oppone resistenza, piange, si sveglia 19 volte per notte e sembra inspiegabilmente infelice.
La mia reazione al carico mentale poteva essere un’ulteriore semplificazione: non rispondere ai messaggi, vestiti male, smetti di scrivere, pettinati coi petardi. A questa logica io non riesco a piegarmi e, lo dico senza mezzi termini, trovo che sia una trappola maschilista. “Non riesci a stare dietro a tutte le tue incombenze pratiche e mentali? Beh, poco male, smetti un po’ di essere te stessa! Vedrai quanto tempo ed energie ti rimangono.” Invece, ho fatto esattamente il contrario: non mollare niente, anche a costo di stancarmi ancora di più. Cercare soddisfazione e felicità anche altrove, trovare quel buonumore e autostima che servono nei momenti duri. Ma, ecco la notizia, anche questo sforzo ha richiesto disciplina e fatica. Alla luce di questa analisi, non è strano che io sia arrivata dopo 12 mesi al punto di saturazione e abbia bramato le vacanze come mai, mai, mai ho fatto in 35 anni.
Io credo che la nostra cultura e la nostra società remino ancora contro una suddivisione equa del carico mentale, che la svolta non sia dietro l’angolo e che passi in primis dall’educazione delle nuove generazioni.

E certamente, crescere i nostri figli il più lontano possibile dagli stereotipi, per offrire loro un futuro più equo del nostro (dalla versione francese originale di “Bastava Chiedere”, traduzione mia)
In attesa di un mondo migliore, vorrei che il questo mio contributo immateriale al ménage famigliare fosse riconosciuto e preferirei non ricevere soluzioni semplici e/o semplicistiche proprio dalla persona che mi conosce meglio. Mi piacerebbe anche che tutti i neogenitori potessero ripensare e semplificare la propria quotidianità con l’ampiezza di opportunità che abbiamo avuto noi. Non ultimo, vorrei che le istituzioni cittadine collaborassero con le famiglie per ridistribuire o quanto meno ridurre il carico mentale che ancora grava sulle madri e che la burocrazia contribuisce a esacerbare.
2020: che ne è stato del mio CARICO MENTALE
Da quando ho avuto un figlio, altre donne di mia conoscenza hanno avuto figli. Parlo di donne con un’indole simile alla mia, lavoratrici e forse un po’ perfezioniste. Bene, in tutte ho notato lo stesso tipo di esasperazione, lo stesso livello di logoramento e di nervosismo che avevo io all’epoca che è frutto della combinazione tra mancanza di sonno, bisogno di attenzione e vigilanza estreme, ritorno alle responsabilità lavorative full-time, effetto cumulato di troppe novità e un po’ di sempreverde senso di colpa. Ho notato che intorno ai 2 anni di età questa impressione di sopraffazione scende: si è sempre stanche, ma la sensazione di portare un macigno sulle spalle non si sente più. Il mio unico rimpianto è che avrei potuto vivere quei primi mesi di mio figlio con un’indole più leggera, meno guerriera, e invece non torneranno mai più e chissà, forse mi dimenticherò tutto di quella stagione di soprammobili rovesciati, risvegli notturni e piantini sul water.
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