In questo periodo mi sento quasi in colpa per il fatto che, se qualcuno mi chiede come sto, rispondo “bene”. Poi, subito dopo, ritratto dicendo “bene, date le circostanze, ovvio”. Il punto è che dopo tanti mesi senza senso, prevedibilità, ritmo, routine, ho accolto con gratitudine la parvenza di normalità estiva e la ripresa della scuola. Eppure.
So che per chi non ha figli -e forse tra chi mi legge molti non ne hanno- la prossima frase sembrerà una boutade, ma credetemi, non lo è: l’intero funzionamento della nostra macchina famigliare si regge sul presupposto che mio figlio non si ammali e possa frequentare la scuola un numero ragionevole di ore al giorno per permettere a me e a suo padre di lavorare. Ma non solo: anche per darci quel respiro o di distacco che ci consenta di essere professionalmente produttivi e creativi, per poi tornare al nostro ruolo di genitori con rinnovato entusiasmo. Nella difficoltà, sono fortunata perché ho un bambino solo e una logistica agevolata, ma sono completamente sprovvista di piani B e, sebbene cerchi di vedere il lato divertente di questa precarietà, ho tantissima paura. Sono privilegiata perché la scuola di mio figlio sta funzionando abbastanza bene: nonostante questo, tutto il giorno e tutti i giorni, c’è una parte di me che ha paura. Ogni volta che sento pronunciare la parola DPCM sento un brivido di puro terrore lungo la spina dorsale.
Essere genitori, essere giudicati
Tutti i genitori con cui ho parlato condividono la mia visione: alcuni addirittura si sentono degli eroi sfortunati. Il che, per quanto mi riguarda, è una delle vulgate sulla genitorialità più sbagliate e tossiche che ci siano (la conosco bene perché che per un certo periodo me la sono bevuta anche io e l’ho propinata a chi mi circondava).
Ma, a ben pensarci, meno male che qualche genitore riesce a raccontarsela così: almeno, sentendosi parte della setta di “noi pazzi coraggiosi e visionari che abbiamo fatto figli” uno si conforta, si sente meno solo e non si concentra sulla triste realtà.
Dall’altro lato della barricata, ci sono quelli che ignorano o minimizzano il problema, contribuendo quindi a diffondere un’altra orribile visione nota come “il genitore inetto e lagnoso”: ho letto su Twitter un tizio compiangere i “poveri insegnanti” che a settembre avrebbero dovuto ereditare schiere di bambini imbarbariti e lobotomzzati da genitori che negli ultimi 6 mesi non erano stati capaci di gestirli. A fare da coro, commenti velenosi in cui si accusava il genitore medio di “lamentarsi di figli che ha voluto, mica te l’ha ordinato il dottore” o “non avere voglia di prendersi cura dei propri figli”. Tutto questo alimenta lo stereotipo per cui essere genitore ti rende uno sfigato, limita la tua libertà e ti ostacola professionalmente.
Essere genitori, essere sfigati
La mia previsione, al termine di questa pandemia, è che i genitori ne usciranno penalizzati. A parità di preparazione, le persone con figli risulteranno sempre meno competitive, saranno considerate dalle organizzazioni una palla al piede, una zavorra, un investimento a perdere. Il discorso si aggraverà per le madri, statisticamente più coinvolte nei lavori di cura e organizzazione. Poiché l’operato delle persone con figli impatta anche quello delle persone senza figli (che possono essere colleghi, collaboratori, superiori, dipendenti, clienti, fornitori che si relazionano con essi), l’inefficienza dei genitori ha dei riverberi ad ampio spettro e conseguenze negative su tutta l’organizzazione che, ovviamente, si lamenterà dei collaboratori con figli intravedendo proprio nell’avere figli la radice di questa ridotta produttività.
Questa cosa mi fa ribrezzo, perché è ormai dimostrato che la genitorialità è un’esperienza che migliora i professionisti -indipendentemente dal genere- e che certamente non li penalizza a livello intellettuale né umano (guardate cosa ne dice Lifeed, c’è una ricerca tutta italiana scaricabile gratuitamente)
La mia esperienza in merito è positiva. Ho visto molte donne -inclusa me stessa- cambiare completamente e in meglio dopo l’arrivo di un figlio: sviluppare un nuovo senso delle priorità e del tempo, guadagnare in autostima e senso di onnipotenza, divenire più accoglienti ed empatiche. Non me ne frega niente di risultare pedante e presuntuosa: nonostante l’età e le innumerevoli puntate di Bing che mi sono sorbita, mi sento molto più creativa e generativa di quanto fossi a 25 anni. E -a dispetto delle preoccupazioni e delle migliaia di ore di sonno saltate tra il 2016 e il 2017- mi sento anche più brillante della media dei 25enni che conosco e ai quali mi sento di poter fare ancora dei discreti culi, professionalmente parlando.
Gli stessi 25enni che si guardano attorno e maturano l’idea distorta che fare i genitori sia solo una gran rottura di cazzi, un’esperienza tutta abnegazione e sacrificio, sicuramente posticipabile se non direttamente evitabile. Ed io, su questa cosa, vi giuro che non ci domo la notte.

Io quando sento quelli che dicono che la maternità rincoglionisce
PS non ho niente contro chi ha 25 anni, era solo un numero a caso per dire giovane.