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Il futuro del lavoro (Visionary Talk del 03-11-2020)

“Il futuro del lavoro” è stato il tema del Visionary Talk del 3 Novembre 2020: un evento digitale per la community di Visionary Days in cui un moderatore (in questo caso: il giornalista Andrea Daniele Signorelli) e alcuni ospiti (in questo caso: io, lo Youtuber Signor Franz e lo startupper Gianmarco Savi) stimolano la discussione su un tema caldo legato al mondo del lavoro. Da casa, chiunque può assistere e intervenire previa registrazione. 

 

L’incontro, che si è svolto nella sede di Phyd, è visionabile su Youtube da questo bottone

Vedi il Visionary Talk del 3 novembre 2020

il futuro del lavoro: il sogno che non c’è per tutti

Ecco l’abstract dell’incontro, che mi è stato da stimolo per produrre il mio intervento.

“Ogni anno si apprestano ad approcciare il mondo del lavoro eserciti di giovani a cui è stato raccontato per anni il sogno dei nuovi lavori del digitale, è stata venduta l’idea del lavoro dei sogni per cui non dovrai lavorare neanche per un giorno. Quindi adesso i corsi di ingegneria informatica si riempiono, i cantanti aumentano e gli influencer si moltiplicano e soprattutto tutti vogliono avere tempo per coltivare i loro hobby; nel frattempo diminuiscono le iscrizioni nei corsi di finanza, nessuno vuole più fare il medico e le scuole professionali faticano a trovare giovani.

Il mondo dei sogni avanza ad una velocità 10 volte maggiore del mondo reale, un mondo che per soddisfare queste esigenze presuppone che i lavori manuali e ripetitivi non esistano più e che una macchina sostituisca l’uomo per regalargli tutto il tempo libero di cui ha bisogno. Parlando di industria 4.0, lavoro dei sogni e digitale vogliamo rispondere alle seguenti domande: chi farà i lavori che noi non vogliamo fare?  Il posto fisso è veramente sbagliato? Oltre al non trovare lavoro, come combatti l’insoddisfazione?”

il futuro del lavoro: il mio discorso e qualche riflessione

Questo è il mio pensiero in merito, che solo in parte è stato espresso durante l’incontro, ma che per una volta mi è venuto spontaneo produrre e mettere per iscritto.

Che la promessa del lavoro fatto di passione che non somiglia nemmeno vagamente a un lavoro in quanto “privo di logorio” sia ufficialmente una bufala lo sappiamo, vero? Siamo d’accordo tutti?
Oggi come 10 o 20 anni fa, il lavoro è faticoso e si compone di compiti belli e appaganti, e compiti brutti e frustranti. Però ecco, se dovessi indicare a un giovane in quale direzione navigare: sicuramente direi componibilità.

Io sono cresciuta in una famiglia non particolarmente severa ma grande fan della focalizzazione: ad esempio, i miei mi hanno praticamente proibito di lavorare mentre studiavo per timore che non mi concentrassi abbastanza e hanno sedato sul nascere qualsiasi interesse che non avesse un ritorno accademico, o pratico. Per capirci.

corso individuale di spagnolo a 30€ l’ora –> sì certo figliola come no, è la terza lingua più parlata al mondo!

corso di teatro gratuito erogato dal liceo –> ah no, evita, usa quel tempo per ripassare i paradigmi greci, va’!

Adesso che sono passati degli anni, so di essere stata una vera bambina e ragazzina multipotenziale e a volte mi crogiolo pensando a cosa avrei potuto essere se le mie tendenze fossero state assecondate almeno la metà di quanto io cerco di cogliere e incoraggiare quelle di mio figlio, che, come nella migliore delle tradizioni, non sembra avere alcuna inclinazione ed essere piuttosto felice anche così.

Sono riuscita solo a 37 anni ad accogliere davvero questa mia propensione e costruire una professionalità peculiare, o comunque tutta mia. Quindi se dovessi darvi la definizione del lavoro dei sogni, direi: non è tanto quello in cui non mi logoro e guadagno tantissimo, ma quello in cui posso aggiungere una pagina “servizi” al mio catalogo ogni volta che lo desidero senza timore di perdere in credibilità e identità. Quello in cui posso, pur chiamandomi sempre Valeria Fioretta, essere quella che fa da portavoce al tuo brand, quella che prepara un piano di comunicazione per quel brand e anche quella che insegna al brand a redigere il proprio piano da sé, se lo desidera. Quello in cui non mi sento un’impostora, in cui non mi sento tacciata di incoerenza o di dispersività, o in cui non ho la percezione di vendermi, svendermi o snaturarmi se non resto fedele al sentiero già battuto. In altre parole, per me il lavoro ideale è questo work in progress in cui assecondo -in modo abbastanza giudizioso- il mio intuito e la mia voglia di sperimentare.

Ci sono persone non portate a questa “contaminazione”, ed esse sono le persone che continueranno a svolgere i lavori aziendali più classici per i quali, secondo me, continua a esserci futuro. Non vedo nulla di sbagliato nei percorsi di carriera tradizionali e nel posto fisso, e mai lo denigrerò: ne ho beneficiato, direttamente e indirettamente per quasi 15 anni. I miei contratti a tempo indeterminato mi hanno consentito di essere relativamente serena e dedicarmi ad altri aspetti della mia vita altrettanto importanti, non ultima la genitorialità. 

Il percorso di orientamento professionale che ho fatto nel 2019, però, mi è servito a stimare “il peso” che io davo a sicurezza, alla stabilità, alla prevedibilità, che non sono valori di per sé: in quel momento, attribuivo a queste variabili una scarsa importanza, ma se avessi risposto agli stessi questionari nel 2005, ne sarebbe scaturito un risultato completamente diverso. Questo avvalora un altro punto importante, a mio parere: il lavoro dei sogni è un concetto dinamico che si evolve con la maturità. Ultima ragione per la quale sono molto grata alla mia esperienza da dipendente è aver appreso come si vive dall’altra parte: spesso mi rapporto con dei liberi professionisti o imprenditori che non sono mai stati degli impiegati e, credetemi, si vede tantissimo. E, credete anche a questo, non è quasi mai una cosa positiva.

Un altro tema caldo sono i lavori poco attraenti: cioè quelli manuali, ripetitivi e, in senso lato, quelli prosaici. Molti lavori, pur cadendo progressivamente in disuso, restano necessari: quindi divengono più interessanti dal punto di vista remunerativo e, a quel punto si ricrea l’offerta di persone disposte a farli. Li pagheremo di più, come un tempo si pagavano di più i ragionieri e gli avvocati. Il lavoro è sempre stato una borsa, e questo non mi preoccupa particolarmente.

Però, credo che nel nostro Paese -più che la forza lavoro o il culto del lavoro- manchi la cultura del lavoro: una vera e propria conoscenza di cosa sono i mestieri e le professioni. E badate bene, non mi riferisco solo ai lavori più antichi, manuali, desueti: io non so precisamente cosa facciano un tornitore o un lattoniere, ma non so nemmeno di cosa si occupino un visualizer o un attuario. Spero tra l’altro che nessuno me lo chieda.

Visto che sono in vena di confessioni, vi dirò che, nonostante studi internazionali e un libretto universitario abbastanza rispettabile, quando ho iniziato a lavorare sono finita per puro caso a occuparmi di product management: ma nessuno, all’università, mi aveva spiegato cosa faceva un product manager e come si componevano le sue giornate. Quel lavoro non lo conoscevo, come facevo a desiderarlo? Mi trovavo in una multinazionale, incontravo continuamente figure professionali in corridoio e quando il mio tutor mi diceva “lui è Tizio, si occupa di trade marketing” io gli chiedevo supplicante “ok, ma cosa fa esattamente? Come occupa le sue giornate Tizio?”. Non sapevo niente di niente.

Se esistesse un vocabolario del lavori, una “narrazione” completa e non stereotipata delle professioni e dei mestieri ivi compresi quelli in disuso sarebbe più facile invogliare le nuove generazioni a prenderli in considerazione e reinnamorarsene. Questa narrazione dovrebbe partire dagli atenei, dalle business school, dalle associazioni di categoria, ma anche dalle aziende, dai professionisti stessi e dalle società che si occupano di recruitment, a servizio dei neolavoratori ma anche di quelli adulti e confusi come lo sono stata io per anni. Se qualcuno vuole mettere in piedi un progetto di divulgazione a metà tra pubblico servizio ed educazione, conti pure sul mio inesplorato multipotenziale.

svgPosta del Cuore n.5
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svg"Genitori Onesti": il mio podcast per Storytel

3 Comments

  • francesca

    Novembre 30, 2020 at 9:34 am

    …però posso aggiungere che dietro a tanti fantasiosi inglesismi, a mio avviso spesso nelle realtà aziendali vi sia il nulla pneumatico? non perchè le persone in questione non facciano nulla dalla mattina alla sera, ma perchè non sempre ad una “etichetta” corrisponda un ruolo ben preciso. In passato, poi, mi sono divertita spesso a chiedere cosa significhino alcune definizioni mutuate dall’inglese e ben pochi sanno dare una spiegazione precisa. Ahimè, aggiungerei!

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    • Silvia

      Novembre 30, 2020 at 11:23 am

      Tranquilla, non lo sanno neanche gli inglesi. Il nulla pneumatico ha imparato a nuotare ed ha attraversato la Manica; gli inglesismi altisonanti che servono a darsi un tono, laddove manca la ciccia, sono un assioma fondamentale e quasi necessario in tutte le organizzazioni. Basta ricordarsi la parolina magica ed improvvisamente tutti ti prenderanno sul serio, se poi non sai cosa significhi, poco male, non lo sanno neppure loro.

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  • Dorina

    Novembre 30, 2020 at 9:38 am

    Bellissima riflessione!

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