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Gli psicologi sui social e il lavoro dei sogni

La settimana scorsa, grazie a un link trovato nella newsletter di Conosco un posto, mi sono imbattuta in un articolo di Vice sul mito del Lavoro dei Sogni. Niente che non sapessi, eh, visto che per estrazione anagrafica sono parte della generazione di cui parla l’autore Alessandro Pilo: mi ritrovo in quella peculiare frustrazione derivante dal non riuscire a realizzarsi professionalmente nel ruolo e nel percorso che desideravamo per noi, sapendo che non è del tutto responsabilità nostra, e sapendo che tutto il mondo se lo aspetta.

La mia esperienza è più fortunata della media, perché ho sempre potuto lavorare nel campo per il quale mi sono preparata: mi ha frustrato molto di più il non aver mai raggiunto i livelli di retribuzione e di prestigio che mi ero prefissata e sul quale, inspiegabilmente, tutto il mio entourage era pronto a scommettere. Parliamo di genitori, parenti, insegnanti, amicə, arciconvintə che io sarei diventata una top manager da classifica di Forbes.

Il risultato di questo trattamento retributivo al ribasso  è che sono diventata poco competitiva: ci potremmo leggere una svolta matura, o un beneficio per il mio fegato, ma è stata invece una forma di violenza nei confronti della mia indole, della mia essenza più autentica. Ne avevo scritto in questo articolo, che un mio ex titolare cerco anche forzatamente di farmi cancellare ricevendo da parte mia una sonora risata.

FARSENE UNA RAGIONE CONVIENE

Ma tornando al pezzo di Vice, mi hanno turbato due punti. Il primo riguarda il concetto di “male minore”. Quando si parla di carriera, sembra essere peggio l’accanimento rispetto alla remissività: incaponirsi testardamente verso un sogno fa più “danni psicologici” rispetto a cedere e abbandonare la nave prima che vada a picco. Insomma, farsene una ragione sul lungo periodo paga di più rispetto all’idealismo, anche se una certa visione romantica del lavoro sembra insegnarci il contrario. Lo spiega molto chiaramente in una recente newsletter anche Taryn di Ventura, consulente di carriera specializzata nel segmento “neogenitori”, cioè una fetta di professionistə che alla fatica di default legata all’essere nati dal 1980 in poi devono anche aggiungere la difficoltà legate a una situazione famigliare, diciamo, più composita.

IL PESO DELLE ASPETTATIVE

Il secondo tema riguarda la probabile inadeguatezza dei percorsi psicoterapici nel far fronte a quello che Colapesce e Dimartino chiamano “peso delle aspettative” e che sarebbe sbagliato definire solo insoddisfazione professionale. Il tipico span analitico della psicoterapia è l’universo interiore individuale, o al limite a quello famigliare, ma non è detto che unə terapeuta sappia guardare al quadro socioeconomico generale e alle radici politiche di questo disagio.

È un malessere inedito che richiede una lettura approfondita della congiuntura in cui ci muoviamo, e presuppone una dimestichezza con i suoi acceleratori: esatto, parlo dei social. Sento ancora terapeutə disinteressarsi apertamente di Instagram e TikTok; vorrei dire loro che il modo in cui essi propongono e promuovono modelli non percorribili, purtroppo no, non è quello delle riviste o della TV, e no, non è vero che c’è sempre stato. 

ma davvero, abbiamo bisogno degli psicologi sui social?

La deontologia viene prima di tutto: quindi mi disgustano ə terapeutə che seguono ə pazientə, mi deprimono i ballettini Jungiani e Freud spiegato con le galleries di Canva. Comprendo che non tutti lə psicoterapeutə abbiano “spazio” e talento per dedicarsi alla divulgazione, o possiedano il physique du rôle per diventare delle Instastar. Però resto convinta che dovrebbero frequentare i social e che, almeno da silenti spettatorə, dovrebbero dominarne i meccanismi.
Senza conoscerne le dinamiche e fare esperienza della loro “pervasività”, penso sia praticamente impossibile afferrare e arginare il malessere, la depressione o l’odio di sé con cui fa i conti la mia generazione.

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One Comment

  • Ely

    Febbraio 20, 2023 at 1:24 pm

    Cara Valeria,
    ti leggo sempre con molto piacere e anche il pezzo di oggi è stato, per me, molto stimolante.
    Sin dall’inizio del mio percorso universitario ho capito cosa avrei voluto fare (cosa non avrei mai e
    poi mai voluto fare lo avevo capito già anni prima) e ho lavorato come una forsennata per raggiungere
    l’obiettivo. Per alcuni anni ho dovuto fare il lavoro che mai avrei voluto fare e ho odiato ogni singolo momento
    di quel periodo, a cui ancora adesso non posso pensare senza avvertire un brivido (e, no, non andavo a spaccare pietre in miniera…).
    Nel frattempo, però, restavo aggrappata al mio sogno e continuavo a lavorare per quello,
    nel tempo libero, di notte, nei fine settimana. Non è stato facile, ho rasentato l’esaurimento nervoso svariate volte
    e sottratto tempo ed energie a tanto altre cose egualmente importanti. Alla fine ce l’ho fatta: non solo per merito mio,
    ma perché alcune persone hanno creduto in me e perché ho avuto anche tanta fortuna. Sono felice, tanto, tantissimo, ma
    la sindrome dell’impostore non mi abbandona mai: vivo, quindi, una condizione ambivalente, per cui non avverto fatica alcuna e
    ogni giorno è meraviglioso, ma continuo a lavorare come una matta, come se ancora non avessi centrato l’obiettivo. Non mi sento mai
    abbastanza all’altezza, in altre parole.
    Oddio, credo che questo commento non sia proprio strettamente attinente al tuo post: forse, lo è solo in parte.
    Ad ogni modo, mi hai fatto riflettere e ti ringrazio.

    Un abbraccio,
    ely

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