
Essere freelance: il bilancio, 4 anni dopo
Oggi ricorrono 4 anni dal mio passaggio dalla condizione di dipendente e quella di libera professionista*, quindi ecco un bilancio non esaustivo dell’essere freelance.
Esordisco dicendo che si tratta di una valutazione globalmente molto positiva anche se ha avuto un andamento ciclico e altalenante, com’è normale che sia visto che in mezzo ho vissuto una pandemia, una psicoterapia, due inizi di di ciclo scolastico per mio figlio e due ristrutturazioni. In sostanza, sono stati 4 anni tutt’altro che monotoni.
I benefici dell’essere freelance
Mi sono licenziata quando mio figlio ha finito l’asilo nido, quindi nell’estate 2019: il timing è stato cruciale per diversi aspetti. Innanzitutto perché avrebbe iniziato una scuola dell’infanzia pubblica, che, pur fornendo un buon servizio, non ci avrebbe garantito la stessa ampissima fascia oraria dell’asilo nido privato: una riorganizzazione radicale delle abitudini e dei tempi famigliari sarebbe stata comunque necessaria. Oltretutto, sapere di non dover sostenere più il costo del nido privato è stata per me anche una “stampella psicologica”, perché prevedevo che i miei introiti mensili si sarebbero, almeno inizialmente, ridotti.
Penso di avere introdotto il primo grande beneficio della vita da freelance: far fronte a emergenze e orari non convenzionali della vita di mio figlio. Ero una lavoratrice full time senza nonni né tate: significa che in 3 anni non avevo MAI potuto andare a prendere mio figlio al nido prima delle 18:30, che ogni minimo raffreddore rappresentava un intoppo complicatissimo, che qualsiasi sua visita medica o altro impegno andava pianificato in tarda serata. Ho potuto seguire personalmente e senza angoscia l’inserimento alla scuola materna, ma anche far fronte a diversi lockdown che da lavoratrice dipendente non so sinceramente come avrei saputo gestire.
Sarebbe riduttivo dire che di questa maggiore flessibilità ha beneficiato solo la mia famiglia, perché a goderne a piene mani sono stata io, in primis. Uno dei drivers di scelta della carriera freelance portato alla luce dal mio percorso di orientamento professionale era proprio il desiderio di disporre del mio tempo in un modo nuovo, anche e soprattutto egoisticamente parlando. In quanto lavoratrice dipendente ho sempre vissuto orari e tempi imposti dall’alto -e in alcune fasi della vita, ad esempio nei miei late twenties direi, ho anche lavorato tantissimo- ma questa condizione ha cominciato a pesarmi seriamente dopo l’arrivo di mio figlio: non tanto e non solo in termini di senso di colpa ma soprattutto a livello di benessere personale e mentale. La sensazione di non riuscire mai a fare quello che volevo io, nell’orario in cui volevo io, con i ritmi a cui lo volevo io è stata una costante della mia vita dal 2017 in avanti: questo malessere andava ben oltre la natura del lavoro che svolgevo, era indipendente da quanto il business fosse stimolante o accogliente l’ambiente. In sostanza, pur essendo immersa in condizioni non penalizzanti, ero insofferente il 99,9% del tempo, non ero mai dove e nel momento in cui volevo essere. Non potevo nemmeno dirmi “arrabbiata” con il management, con le colleghe o con il sistema: come la mia psicoterapeuta mi ha aiutato a capire, ero semplicemente drenata. Per lungo tempo tutto il mio spazio fisico, emotivo e mentale era stato occupato, anche se non in maniera necessariamente “abusiva”: la gravidanza, la maternità, un nuovo lavoro, mesi e mesi di privazione del sonno, la malattia e la morte di mio padre, la pubblicazione del mio romanzo dopo anni di gestazione, un altro cambio di lavoro. Sono tutti fatti della vita eh, nulla di insolito o eroico, ma concentrati in un periodo di nemmeno 3 anni durante il quale non ho praticamente mai accusato il colpo e sono anche stata felice, ma perennemente esausta.
Il secondo beneficio della vita da freelance è stato godere di giornate che mi somigliassero, che corrispondessero almeno un po’ ai miei desideri. Desideri che ho scoperto crescendo, anche perché erano spesso distanti da quelli che nutrivo 5, 10 o 15 anni prima: prendermi cura della casa, fare da mangiare, allenarmi, ad esempio, erano cose che mi interessavano poco o che anni prima mi stava bene fare il sabato mattina o dopo le 19. Anche perché cambiare priorità è normale: quando avevo 27 anni potevo stare settimane intere senza fare una passeggiata o leggere un libro, perché evidentemente non me ne importava granché. Ma ora mi importa, così come mi importano molto meno altre cose che allora mi sembravano il sale della vita: uscire 5 sere a settimana o andare al cinema ogni domenica pomeriggio. Se cambiano le priorità, per me è normale che la vita lavorativa si adegui.
Cristina Polga ed io, durante il mio ormai mitologico percorso di orientamento professionale, avevamo definito un mix di attività che avrebbero generato il mio fatturato, individuandone tre: la consulenza, la scrittura e la content creation cui avevamo attribuito un peso percentuale di partenza. Cristina aveva ben capito la mia difficoltà a fare una cosa sola e mi aveva incoraggiata a stare nel flusso, cioè a lasciare che questo mix si ricomponesse secondo necessità, eventualmente accogliendo tutti i “figli” che nel frattempo sarebbero nati. Quando mi sono data il permesso di afferrare questa opportunità, che amichevolmente chiameremo multipotenzialità, si è manifestato il terzo beneficio e sono saltati fuori incarichi ai quali mai avrei osato pensare: la formazione (ho scritto un manuale tecnico, ho creato e tenuto diversi corsi in streaming e registrati) e l’organizzazione eventi (ho fondato una vintage sale), per dirne due. Senza contare tutte le chance venute fuori da una presenza social più curata e gestita da professionisti: un TEDx, varie opportunità di public speaking, collaborazioni con brand prestigiosi e lovemark, alleanze e partnership di valore.
Infine, c’è l’innumerevole quantità di persone che ho conosciuto in virtù di questa nuova professionalità: concittadinə, moltə divenutə anche amicə, professionistə da cui ho imparato tantissimo, oppure conoscenze superficiali che ho avuto tempo e modo di approfondire e trasformare in altro. Il quarto beneficio dell’essere freelance è aver rafforzato ed espanso la mia rete di rapporti. Fortunatamente l’avevo già prima, anche in virtù di una mia naturale tendenza all’estroversione: tuttavia, poche persone ammettono che le relazioni interpersonali positive generano benessere e migliorano la qualità della vita MA richiedono tempo ed energia, solitamente a discapito di qualcos’altro. Questo è vero per le relazioni puramente cordiali e “funzionali”, figuriamoci se parliamo di relazioni affettive autentiche e durevoli come l’amicizia o l’amore.
fatturato e altri downsides dell’essere freelance
Il principale downside della vita da freelance è l’imprevedibilità e incertezza degli introiti, ragion per cui non suggerirei di lasciare il posto di lavoro in assenza di un business plan e di un buon foglio di calcolo redatto insieme a unə commercialista. Io avevo entrambi, insieme a una certa capacità di padroneggiare l’ansia e i numeri che mi aiuta ancora adesso: non è merito, ma ho studiato anche per quello.
Io partivo da una chiara definizione del mio obiettivo economico, che condivido volentieri anche se agli occhi di una persona ambiziosa non risulterà particolarmente motivante: io non desideravo arricchirmi, ma essere più felice. Il mio tenore di vita di quand’ero dipendente non aveva niente che non andava e non c’erano particolari target di benessere o status che speravo di raggiungere divenendo freelance: il mio obiettivo è sempre stato non scendere sotto la mia retribuzione annua netta, cioè mantenere le stesse entrate di quand’ero dipendente e che fino a quel momento si erano rivelate sufficienti a coprire le nostre necessità familiari. Questo perché, seppur assolutamente dignitoso e privo di grandi preoccupazioni, mi sono fin da subito settata su uno stile di vita piuttosto semplice e poco aspirazionale soprattutto se confrontato con quello di altrə colleghə creators. Non sono la piccola fiammiferaia: riconosco di beneficiare di ottime condizioni di partenza totalmente immeritate com’è per definizione qualsiasi fortuna. Diciamo che, se il ruolo e il merito storico della mia famiglia sono stati guadagnare e accumulare (anche perché le condizioni storiche gliel’hanno permesso!), il mio ruolo sarà onorare questo benessere e fruirne in modo rispettoso, consapevole, parsimonioso e possibilmente generoso.
Sarei sicuramente felice di guadagnare di più, per permettermi con maggiore serenità alcune esperienze che da anni non mi concedo (ad esempio un bel viaggio lungo, avventuroso e lontano) e d’altro canto sono assolutamente certa che se lavorassi più ore, o più alacremente, o meno scrupolosamente, fatturerei di più. Questa self confidence, che è banale consapevolezza, l’ho appresa in questi 4 anni di esperienza, ma non nascondo che possederla mi rasserena molto: è come se sapessi che dinanzi a me ci sono orizzonti nuovi e inesplorati che posso ancora andare a esplorare, una sensazione che da dipendente non provavo mai.
Essere freelance: consiglio non richiesto
A incrementare il mio “tasso di serenità”, oltre alla stessa commercialista che mi ha assistito nelle simulazioni iniziali, sono successivamente arrivate altre due figure professionali: un consulente finanziario (che mi ha indirizzato nella scelta e sottoscrizione di un fondo per integrare la mia -temo magra- pensione) e uno assicurativo (che mi sta progressivamente guidando nella gestione dell’incertezza e del rischio). Non sono a mio parere indispensabili nel momento “zero” della carriera freelance, ma sono due persone che -se tornassi indietro- avrei voluto nella mia vita già a partire dai 25 anni. Magari saperlo può essere utile a moltə.
*non dall’apertura della partita IVA, perché per quella ho atteso il 1 gennaio 2020 con un tempismo direi rimarchevole