Ho già parlato in numerose occasioni di quanto la privazione di sonno sia stata per noi una costante fin dalla nascita di Elia. Non penso che il suo sia stato il caso peggiore della storia dell’infanzia italiana, ma che si sia trattato di un modello abbastanza classico: un bambino sano e normale allattato al seno che, una volta svezzato, ha mantenuto una struttura del sonno simile a quella di un lattante. Ovvero, bisognoso di essere accompagnato durante l’addormentamento e caratterizzato da risvegli reiterati.
SLEEP TRAINING: L’OBIETTIVO DI QUESTO POST
L’obiettivo di questo post non è spaventare le gestanti: il nostro caso è appunto nostro e dipende in parte da com’è fatto Elia, in parte da come noi l’abbiamo abituato ad affrontare il sonno durante i suoi primi mesi di vita. Se adesso mi chiedessero “dove hai sbagliato inizialmente?” non saprei rispondere, perché tutte le scelte che abbiamo effettuato fin dalla nascita sono state compiute in buona fede e, ancora adesso, non vedo niente di palesemente sbagliato nel fatto di averlo cullato in braccio cantandogli delle canzoni di mia squisita invenzione, o nell’averlo addormentato a forza di carezze nel mio letto per poi trasferirlo nel suo, o nell’essere sempre accorsi al suo capezzale al minimo miagolio per rassicurarlo e farlo riassopire. Sono tutti metodi validi che avrebbero potuto funzionare e guidarlo dolcemente ai piaceri del sonno autonomo, ma che nel nostro caso sono stati fallimentari: Elia a 18 mesi non aveva ancora imparato ad addormentarsi da solo quando era palesemente stanco, né a riprendere sonno dopo uno dei fisiologici microrisvegli notturni. Siccome, ripeto, il mio obiettivo non è seminare il panico, non vi dirò che tipo di angoscia gravava sul mio sterno quando si avvicinavano le 21:00 e mi accingevo alla cerimonia dell’addormentamento, seguita da trasferimento nel suo letto, seguita dal lancio dei dadi per indovinare quando si sarebbe svegliato e se quindi sarei riuscita a farmi 3 ore consecutive oppure no. Negli ultimi tempi, prima di mezzanotte si era già svegliato e mi toccava, ogni volta, ripetere la sequenza: estrailo del letto, coccolalo, fallo riaddormentare, riadagialo nel suo lettino sperando che nulla turbi la manovra e che si riaddormenti. Ripeti almeno 3 o 4 volte per notte. Se l’ultimo risveglio si verificava dopo le 5, le speranze che richiudesse gli occhi erano inesistenti e quindi ci si svegliava tutti e tre. Tutto questo senza poter contare su nessuno dei metodi, diciamo, ad alto contatto: non lo allattavo più, non ha mai voluto il biberon, non gli è mai particolarmente piaciuto dormire con noi.

Per dire, con i biberon ci abbiamo fabbricato le maracas
L’impatto sulla mia psiche si manifestava in sonno perenne, irritabilità estrema, ansia dinanzi al calar delle tenebre. In più, peggio di tutto il resto, l’assenza di energia finiva col ripercuotersi negativamente sul mio rapporto “diurno” con Elia. Quindi non ero paziente, volenterosa, disposta a giocare, assecondarlo nelle sue esplorazioni domestiche o sorridere dei suoi disastri. Mi sono ritrovata in alcune occasioni a sbuffare, ad alzare gli occhi al cielo, a dedicarmi a lui senza quel tipo di passione che credo gli sia dovuta.
L’obiettivo di questo post non è nemmeno invitarvi a seguire il mio modello: voglio solo dire che non necessariamente occorre accettare passivamente di non dormire per due anni “perché essere genitori è così”. Stabiliti i propri limiti di sopportazione, ognuno è libero di resistere finché vuole: ma se la situazione sta bene a un solo membro della famiglia -il piccolo, nella fattispecie- forse bisogna lavorarci su e trovare un compromesso che vada bene a tutti. A maggior ragione che un sonno frazionato, a mio modesto parere, non è positivo nemmeno per il bambino e ha un effetto irritante su di lui come sui genitori (anche se le madri ad alto contatto che allattano di notte ogni 40 minuti mi salteranno alla gola e mi denunceranno alla Leche League).
SLEEP TRAINING: I CONSIGLI E LE FONTI
Per me è stato molto utile parlarne con la pediatra -figura alla quale, per via della buona salute del piccolo e della mia presunzione, ricorro molto di rado se non per pure questioni sanitarie- la quale mi ha spiegato in modo figurato che cos’era il sonno per Elia: una sorta di “cibo” che io gli somministravo, oppure una “magia” che io gli facevo. Elia non aveva capito che il sonno lui ce l’aveva già dentro e doveva solo farlo venire fuori. Inoltre, mi ha fatto riflettere su quanto doveva essere stabilizzante addormentarsi in un luogo (es. in soggiorno sulla sdraietta) e risvegliarsi in un altro (la sua stanza dentro un lettino con le sbarre): anche un adulto sarebbe stato colto da un senso di smarrimento, no? La seconda persona che mi ha aiutato è stato un educatore (sì, un ragazzo!) del nido di Elia, a sua volta padre di una bambina, il quale mi ha fatto capire che la chiave del problema stava nella nostra eccessiva presenza durante la fase dell’assopimento, perché il piccolo avrebbe sempre associato quel momento a uno di noi genitori e l’avrebbe quindi richiesta a ogni risveglio. L’ultima persona che mi ha aiutato a riflettere è stata Francesca, una ragazza italiana che vive nel Regno Unito e che mi ha spiegato come è uscita da una situazione analoga alla nostra ricorrendo all’aiuto di una professionista: anche mia cugina, che vive a Dublino, si è appoggiata a una figura simile quando il suo bambino più piccolo aveva avuto dei disturbi del sonno.
Esiste evidentemente una differenza tra l’Italia e i Paesi anglosassoni, dove operano figure di ostetriche-counselor specializzate in allattamento, sonno, svezzamento e via dicendo. Non che in Italia non ci siano le ostetriche, ma l’assistenza specializzata e domiciliare è un servizio al quale ricorrono poche donne. Io stessa, a luglio 2017, mi ero rivolta a queste specialiste, ma poi non avevo fruito del servizio perché di lì a poco saremmo partiti per le ferie e non era un investimento che desideravo fare subito. Comunque, mixando i suggerimenti di queste persone e ricorrendo alla forza della disperazione, ho deciso di creare una routine serale affettuosa al termine della quale ci saremmo salutati e rivisti il mattino dopo. La prima sera, Elia ha pianto ben più di un’ora; la sera dopo solo 20 minuti, quella seguente 4 minuti, poi 1 solo minuto. Poi basta.
Il suo pianto non era di paura: sapeva che eravamo lì, abbiamo lasciato uno spiraglio di porta aperto, ha sempre sentito i rumori di casa (anche se, dopo 18 mesi di coprifuoco, noi ci muoviamo come dei ninja). Si trattava di un pianto di rabbia, dovuto al fatto che l’avevamo privato di un’abitudine o di una dipendenza: ma nel giro di 4 o 5 giorni ha capito che il sonno alle 21:15 arriva, e che se alle 3 di notte si sveglia per un colpo di tosse può “riacchiappare il sonno” e assopirsi di nuovo. Pensavo che sarebbe stato risentito e arrabbiato con me, che mi avrebbe in qualche modo manifestato il suo dissenso ma così non è stato.
SLEEP TRAINING: LA ROUTINE
La routine che in maniera del tutto empirica io ho messo insieme, inizia verso le 9 e include i seguenti step:
- annuncio ad alta voce che è ora di andare a letto
- cambio pannolino
- pigiama
- giro in cucina per bere acqua a volontà
- indossare ciuccio e sacco nanna (di cui avevo parlato qui)
- sedersi abbracciati sulla poltrona da allattamento
- breve storia di mia invenzione tratta da fatti realmente accaduti (“di quella volta che mamma non passò l’esame di guida“, “di quella volta che mamma stava per perdere un aereo perché era nello store di Victoria’s Secret e annunciarono il suo nome all’altoparlante“)
- bacio e arrivederci
- consegna dell’orsetto
- spegnimento luci e chiusura porta
A volte lo metto nel letto con gli occhi a mezz’asta, altre volte è ancora sveglio e ripassando davanti alla sua porta sento che parlotta tra sé o si canta una specie di nenia tutta sua. Ciò che conta è che non piange e nel giro di 10 minuti si è addormentato comunque.

Io non ci posso credere che fosse così minuscolo
SLEEP TRAINING: I RISVEGLI
Nel caso di risvegli notturni, evitiamo di accorrere e lui, nel giro di pochi secondi, si riaddormenta autonomamente. Mi è accaduto una sola volta di dovermi alzare e dargli una tanica d’acqua che ha bevuto a gargarozzo, per poi girarsi e ripiombare nel sonno (si è poi scoperto che a cena aveva mangiato un sacco di pasta al pesto che era forse più salata rispetto al solito). Lo stesso metodo l’abbiamo applicato anche in trasferta, in altri letti e altre stanze, e ha funzionato bene. Sempre l’identica routine ci ha dato soddisfazioni persino in presenza di ospiti a casa: una volta coricato Elia, abbiamo continuato a parlare, fare giochi di società, scolarci un amaro.
SLEEP TRAINING: I RISULTATI
Non penso di dover specificare che non è stato divertente ascoltare mio figlio piangere di rabbia per oltre un’ora e che avrei preferito fosse uno di quei marmocchi narcolettici che si abbioccano ovunque, ma credo di avergli fatto a modo mio un regalo:
- gli ho insegnato a trovare il sonno dentro di sé. Spero col tempo di insegnargli ad addormentarsi da solo anche al pomeriggio -come peraltro già fa al nido- ma ora non insisto perché mi sento una miracolata e non voglio peccare di ubris
- gli ho regalato un umore migliore. La mia sensazione è che sia più allegro, ragionevole e anche più sveglio. Non voglio invocare la scienza, ma fior fior di ricerche dimostrano che il sonno è fondamentale per un buono sviluppo cerebrale infantile: non so se nel mio caso le due cose siano correlate, ma da quando le sue notti sono regolari e prive di interruzioni, Elia ha cominciato a parlare, ripetere, fare giochi più complessi.
O forse sono io che noto le sue evoluzioni perché lo osservo con maggiore attenzione e meraviglia: mi sento -forse ingiustamente ma non mi vergogno a scriverlo- una madre meno esaurita e più paziente. Anche aver recuperato le energie per guardare un film o leggere qualche pagina è un altro beneficio che non mi sento di sottovalutare.
Lo svantaggio di questa routine è che rende molto difficile uscire la sera: per questo motivo, temo che per i prossimi tempi andremo raramente al ristorante o fuori da amici. Credo tuttavia che non si possa avere sempre tutto, e in questo momento va bene così.
Penso che non avrei fatto questo tentativo quando Elia aveva 6 o 7 mesi: probabilmente mi sarebbe parso troppo traumatico, avrei preferito un metodo più delicato e progressivo, o forse non ero tanto distrutta come lo ero a dicembre. Il pianto di un neonato è diverso da quello di un bambino: è una pugnalata al cuore, dalla quale percepisci la sua paura e la sua ansia. Tuttavia ho trovato la testimonianza di una madre che ha applicato un metodo simile al mio su un bambino molto più piccoli, appoggiandosi a una specialista che afferma che si può educare al sonno anche i bambini di sole 16 settimane (probabilmente non allattati al seno, ipotizzo io). Sia la madre sia la specialista che viene intervistata, tuttavia, concordano che non esista nessun metodo di sleep training che non includa un po’ di pianto.
In ogni caso, vi riporto due articoli in merito: il primo e il secondo.