
Ma chi me lo fa fare: tutto quello che so sul lavoro
La mia ultima lettura è stata “Ma chi me lo fa fare? Come il lavoro ci ha illuso: la fine dell’incantesimo” di Andrea Colamedici e Maura Gangitano, edito da Harper Collins. Si tratta di un saggio sulla relazione -drammaticamente e proporzionalmente inversa- tra lavoro e senso della vita. Analizzando i mutamenti storici ed economici, glə autorə ricostruiscono il percorso attraverso il quale il lavoro ha smesso di essere un’attività umana accessoria -ancorché funzionale a garantire la soddisfazione dei bisogni primari-. Come ha fatto il lavoro a diventare l’elemento attorno al quale gli occidentalə costruiscono le giornate, o il metro di paragone con cui stabiliscono il proprio valore o quello altrui?
Ma soprattutto, è casuale che nell’epoca in cui l’ossessione per il lavoro si è fatta più serpeggiante, l’interesse per la politica sia prossimo allo zero? Che, proprio in una fase storica in cui disponiamo di un sentiero già battuto e priorità chiare, un numero sempre maggiore di persone sia letteralmente privo di interesse per l’esistenza, per il futuro proprio e del genere umano? Andrea Colamedici e Maura Gangitano dipingono un quadro sconfortante e propongono una risposta personale a questa deriva, mixando competenze accademiche (e una bibliografia solidissima: è un saggio e si vede), il loro sguardo sul mondo social con la loro esperienza personale di liberi professionisti e genitori. Lo potete comprare da questo link o dove vi pare.
Il mio spirito critico per la cultura aziendale è nato molti anni fa, e me l’ha regalato mio padre, che in un’organizzazione come quella in cui ero io non aveva mai messo piede.
Nella multinazionale in cui ho completato uno stage nel 2005, una manager rimproverò la mia scarsa dedizione al lavoro perché osavo andare via alle 19 e non alle 21 come gli altri. Non avevo neanche 23 anni, abitavo ancora con i miei genitori, tornavo a casa in treno e ci tenevo a cenare con mio padre che in quel periodo era malato. La manager mi disse che non avevo l’atteggiamento giusto per lavorare in quel luogo, cioè mi mancava quel peculiare mix tra sottomissione e allegria che caratterizzava tutte le persone regolarmente assunte e dotate di prospettiva là dentro. Infatti, nonostante da quel momento in poi io mi sia data immensamente da fare, non mi assunsero. Andai avanti a lungo chiedendomi se mi mancava qualcosa, se nonostante i miei 30 e lode non fossi una specie di bluff. Arrivai a domandarmi se il mio attaccamento nei confronti della mia famiglia non fosse eccessivo, e immaginavo scenari alternativi in cui mio padre non era malato e io quindi non mi sentivo “moralmente” vincolata a tornare a casa ogni sera alle 7. Scenari in cui lavoravo allegramente ed ero brava, in cui i miei capelli erano adeguati.
Quando tornai a casa e dissi che non ero stata assunta, mio padre mi disse “hai vinto un terno al lotto” e mi spiegò che era tutto finto, che i rapporti interni erano solo giochi di potere e che potevo fingere finché volevo ma loro sapevano che ero diversa. C’era una parte di me convinta che fossero dei poveri miserabili, e questa parte sgomitava per emergere, per sollevare il sopracciglio, per alzare gli occhi al cielo: questa parte di me era fuori controllo ed era intenzionatissima a farglielo capire, che io non ero come loro.
Mio padre mi mostrò tutti i trucchetti che le aziende come quelle usavano per farti sentire parte dell’organizzazione: innanzitutto scegliere ragazzi giovani. Loro dicevano che incoraggiava la creatività, ma in verità servivano persone prive di obblighi famigliari o genitoriali. La diversity interna veniva promossa attraverso un recruitment capillare ed efficace, ma era solo un escamotage per accertarsi che i lavoratori arrivassero da fuori città e che quindi -privi di una rete famigliare e amicale- fossero costretti e diventare amici dei colleghi. Il lavoro, così, era pronto per diventare centro nevralgico e fulcro relazionale della loro esistenza.
Mi disse che dovevo ringraziare il cielo: non mi sarebbe più toccato stare fino a tarda sera in una stanza a decidere -con serietà e autentica preoccupazione- se il depliant doveva avere lo sfondo lilla o violetto, come se questa scelta avesse davvero un riverbero sulle sorti dell’umanità tali da impedire a dieci persone di cenare a un’ora decente. Quando commentavo che nel marketing decisioni del genere hanno grande importanza, lui ribatteva che, in tal caso, non c’era ragione per non prenderle alla luce del sole davanti a un caffè: nessun motivo appunto, se non diffondere l’idea che lavorare come matti sia un valore di per sé, che interpone una distanza morale tra chi lo fa e chi no.
Sono fuori dal mondo aziendale da anni, ma continuo a lavorare molto e spesso male: in orari insensati, arrancando dietro a deadline che raramente posso scegliere, facendo un sacco di lavoro sottopagato o gratuito per pura vanità e visibilità, limitando la mia creatività per obbedire a logiche di mercato. Ma a salvarmi dal rischio “fagocitamento”, o dall’attribuire al lavoro un potere sulla mia vita maggiore di quello che gli spetta è quella parte di me che alzava gli occhi al cielo in riunione, e che si chiedeva ma chi me lo fa fare.
Ouioui
Aprile 12, 2023 at 4:26 pm
Grazie per la recensione e il pensiero. Da ricordarsene sempre
gynepraio
Aprile 23, 2023 at 3:25 pm
ogni tanto me lo ripeto ancora, metti mai che me ne scordi
Valentina
Aprile 23, 2023 at 10:04 am
Avessi avuto io dei genitori in grado di parlarmi così… tuo padre , una persona molto intelligente.
gynepraio
Aprile 23, 2023 at 3:25 pm
Era un soggetto complicato, ma aveva buon senso.
Cristina
Aprile 27, 2023 at 11:10 am
No vabbé…grazie di cuore! Tutto da marchiare a fuoco.