
“Quaderno proibito” di Alba de Céspedes: intervento per WeReading
Questa è la trascrizione di parte della lettura di “Quaderno proibito” di Alba de Céspedes che ho fatto il 26-04-2023 presso The Mad Dog Social Club nell’ambito della rassegna We Reading. Se vorresti leggere questo romanzo, e quindi non vuoi sentire nemmeno una parola in merito, ti capisco. Insomma, compratelo a questo link affiliato. Se invece l’hai già letto, o hai -giustamente- fiducia nel fatto che io non rovinerò la gioia delle prime volte, procedi pure!
Acquistare “Quaderno Proibito”
“Quaderno proibito” di Alba de Céspedes è un libro bellissimo e soprattutto trendy visto che è stato a lungo introvabile e solo da poco Mondadori sta progressivamente ripubblicando le opere di questa autrice la cui vita si meriterebbe un reading a sé.
Alba de Cespedes nasce nel 1911: figlia di un’italiana e un diplomatico cubano, cresce peregrinando a seguito della famiglia tra le principali capitali europee. Per questo viene istruita privatamente senza mai frequentare una scuola e quindi senza mai ottenere un titolo di studi.
A quindici anni -plot twist!- si sposa con un conte, per poi divorziare poco dopo aver avuto da lui un figlio. Uscita indenne da questa parentesi da chica mala, Alba inizia a scrivere articoli, racconti e romanzi a puntate intorno ai 20 anni. Il regime fascista prova a impedire la diffusione del suo romanzo “Nessuno torna indietro”: a quel punto Alba de Cespédes aderirà alla Resistenza lavorando come giornalista radiofonica per Radio Bari.
A guerra finita, fondò e diresse una rivista cultural-letteraria chiamata Mercurio, che però durò solo 4 anni; per tutto il resto della sua vita si dedicò soprattutto alla scrittura per cinema, teatro, radio.
Vorrei dire che “Quaderno Proibito” di Alba de Céspedes è l’opera più bella scritta da questa autrice, ma per poterlo affermare con sicurezza dovrei averle lette tutte cosa che mi riprometto di fare. Mi sento però di poter dire che è un romanzo altamente relatable. Per la sottoscritta, di sicuro: la protagonista si chiama Valeria, come me, e suo marito si chiama Michele, come il mio. Tuttavia è ambientato in un’epoca davvero diversa: io sono nata nell’era craxiana e invece la sua protagonista è figlia delle guerre.
Io sono nata poco prima della guerra di Libia ed ero piccola, quando è scoppiata la Prima Guerra Mondiale; poi, in collegio, ci arrampicavamo sulle inferriate delle finestre per vedere i fascisti che passavano con i teschi disegnati sulla camicia nera aperta fino alla cintola e le bombe a mano; eravamo sposati da pochi anni quando Michele è partito per l’Abissinia, e quando egli ha indossato di nuovo la divisa, nel ‘40, portava ancora il lutto di suo fratello morto in Spagna.
Insomma, non proprio un Gran Carnevale di Rio. Per offrirvi un minimo di background sociale, diciamo che Valeria e Michele sono una coppia romana piccoloborghese provenienti da famiglie non particolarmente ricche: entrambi sono dipendenti. Lui in banca, lei in un ufficio, dove ha deciso di lavorare per contribuire al ménage famigliare.
Una costante di “Quaderno proibito” di Alba De Céspedes è un lavorare intenso e indefesso, che però non conduce mai a un sostanziale miglioramento delle condizioni economiche. Anche questo piuttosto relatable, devo dire.
Valeria e Michele hanno due figli: Riccardo, il maggiore, e Mirella, la minore. Entrambi studiano legge e sono animati da un desiderio di rivalsa economico-sociale. Piuttosto normale, visto che la vicende si svolgono nel 1950, in piena Ricostruzione, quando finalmente ci si poteva concedere la speranza di una vita migliore.
Riccardo sogna di trasferirsi in Argentina, dove intende arricchirsi per poi tornare in patria e mettere su famiglia. Al contrario, Mirella studia per divenire avvocata e sarà la sua intelligenza spregiudicata a farle trovare l’amore e la fortuna professionale. Per parlare del povero Michele, mi servirò delle parole de “I cani”: in un pezzo famosissimo, Niccolò Contessa cantava che le velleità ti aiutano a campare quando i soldi sono troppi o troppo pochi. Michele, marito di Valeria, coltiva il sogno proibito di fare lo sceneggiatore e a quanto pare ha pure scritto un soggetto un po’ sporcaccione. Di base, detesta il suo lavoro e intimamente pensa di essere nato per altro.
Ma nonostante queste premesse, il quaderno proibito del titolo appartiene a Valeria. Cosa c’è di vietato in tutta questa faccenda? Di pruriginoso? Di censurabile?
Per i nostri standard, praticamente niente. Il quaderno è proibito perché all’epoca, di domenica, i tabaccai potevano vendere solo prodotti di monopolio e non la cancelleria: il che mi riporta pericolosamente al primo lockdown 2020, in cui il caviale russo Beluga da 800€ all’etto era considerato un bene di prima necessità, e invece gli album per far disegnare i bambini no. Sono i famosi corsi e ricorsi della storia.
Comunque: Valeria acquista questo quaderno di impulso e su consiglio dal tabaccaio lo nasconde sotto il paltò onde evitare che un gendarme la fermi e le chieda perché mai va in giro di domenica con un sovversivo quaderno sotto il braccio. Arrivata a casa, Valeria inizia a chiedersi che farne: nella sua mente c’è la vaga idea di farne un diario ma non sa da che parte cominciare. Non so quanti di voi abbiano avuto un diario, ma in generale funziona così: ci si siede in un angolo senza nessuno che ti disturbi e si lascia fluire il pensiero liberamente sulla carta.
Il punto che Valeria non è MAI sola. Quindi per avere un attimo di pace, compra ai figli e al marito 3 biglietti per lo stadio e assicurarsi così 90 minuti di serenità tutti per sé. Incredibile che solo dieci anni dopo Rita Pavone si sarebbe lamentata del fidanzato che la domenica la lasciava sempre sola per andare a vedere la partita di pallone.
La sorpresa è che non appena impugna la penna e si mette a scrivere, Valeria esegue questo gesto con una straordinaria naturalità, con un piacere che le crea subito una sorta di dipendenza. Nei primi capitoli, Alba de Céspedes ci porta alla scoperta di Valeria non dicendoci quello che essa è, fa, o vuole. Ci dice, prima di tutto, quello che non ha. Il nome, ad esempio.
Mi viene fatto di domandarmi se io non abbia incominciato a cambiare carattere dal giorno in cui mio marito, scherzosamente, ha preso a chiamarmi “mammà”. Mi piacque tanto, sul principio, perché così mi pareva di essere io la sola persona adulta, in casa, la sola che già sapesse tutto della vita. Ciò accresceva quel senso di responsabilità che ho sempre avuto, fin dall’infanzia. Mi piacque anche perché in tal modo riuscivo a giustificare l’impeto di tenerezza sempre suscitato in me dal fare di Michele che è rimasto candido, ingenuo, anche ora che ha quasi 50 anni. Quando mi chiama “mammà” io gli rispondo con un piglio tra severo e tenero, lo stesso che usavo con Riccardo quando era bambino. Però adesso capisco che è stato un errore: lui era la sola persona per la quale io fossi Valeria. I miei genitori sin dall’infanzia mi chiamano Bebe e con loro è difficile essere diversa da quella che ero all’età in cui mi diedero quel nomignolo (…). Per alcuni amiche sono ancora Pisani, la compagna di scuola, per altre sono la moglie di Michele, la madre di Riccardo e Mirella. Per lui, invece, fin da quando ci siamo conosciuti ero stata soltanto Valeria.
Non ha un nome, dicevamo. Ma non ha una scrivania né ha un cassetto.
Ieri sera, subito dopo cena, ho detto a Mirella che non mi piace la sua abitudine di tenere chiuso a chiave il cassetto della scrivania. Mi ha risposto sorpresa, obiettando di avere questa abitudine da anni. Ho ribattuto che, infatti, da anni la disapprovo. Mirella ha risposto vivacemente che, se studia tanto, è proprio perché vuole incominciare a lavorare, essere indipendente, e andarsene da casa appena maggiorenne: così potrà tenere chiusi tutti i cassetti senza che alcuno se ne adonti. Ha aggiunto che nel cassetto tiene il suo diario, perciò lo chiude a chiave, e che, del resto anche Riccardo fa lo stesso perché vi ripone le lettere che riceve dalle ragazze. Ho replicato che allora anche Michele e io avremo il diritto di avere un cassetto chiuso a chiave. “ Infatti lo abbiamo” ha detto Michele: “è il cassetto dove teniamo il denaro”. Io insistevo che avrei voluto averne uno per me sola; e lui, sorridendo, mi ha chiesto: “Per che farne?”. “Mah, non so, per tenerci le mie carte personali” ho risposto “alcuni ricordi. O forse proprio un diario, come Mirella.” Allora tutti, compreso Michele, hanno cominciato a ridere all’idea ch’io possa tenere un diario.
Non ha una scrivania né un cassetto: figuriamoci la famosa stanza tutta per sé di cui parlava Virginia Woolf.
Avrei bisogno di essere sola, qualche volta, ma non oserei mai confessarlo a Michele, temendo di dargli un dispiacere, ma sogno di avere una camera tutta per me. I domestici, anche se lavorano tutto il giorno ininterrottamente, a sera dicono “buona notte” e hanno il diritto di chiudersi in una camera, in uno sgabuzzino. Io mi accontenterei di uno sgabuzzino. Invece non riesco mai a isolarmi e soltanto rinunciando al sonno trovo un po’ di tempo per scrivere in questo quaderno. Se, quando sono in casa, interrompo ciò che sto facendo, o la sera a letto smetto di leggere e guardo nel vuoto, c’è sempre qualcuno che premurosamente mi domanda a che penso. Anche se non è vero, rispondo che penso all’ufficio o che sto facendo certi conti; insomma debbo sempre fingere di non pensare che a cose pratiche e questa finzione mi logora. Se dicessi che sto pensando a un problema morale, o religioso, o politico, forse, si metterebbero a ridere, affettuosamente schernendomi, come fecero la sera in cui affermavo il mio diritto di avere un diario.
Come se non bastasse, Valeria non ha riposo: se sta ferma si sente in colpa, e comunque nessuno in famiglia la aiuta.
Un’altra cosa mi trattiene dal confessare che scrivo: ed è il rimorso di perdere tanto tempo a scrivere. Spesso mi lamento di avere troppe cose da fare, di essere schiava della famiglia, della casa; di non avere mai la possibilità di leggere un libro, per esempio. Tutto ciò è vero, ma in un certo senso questa schiavitù è divenuta anche la mia forza, l’aureola del mio martirio.
Sicché quando, raramente, mi accade di dormire mezz’ora prima che Michele e i ragazzi rientrino per la cena, o di fare quattro passi guardando le vetrine mentre torno dall’ufficio, non lo confesso mai. Temo che, ammettendo di aver goduto sia pure un breve riposo, uno svago, perderei la fama che possiedo di dedicare ogni attimo del mio tempo alla famiglia. (…) In verità Michele mi incita sempre a concedermi un po’ di riposo e Riccardo dice che non appena sarà in grado di guadagnare mi offrirà un soggiorno a Capri o in Riviera. Il riconoscimento della mia stanchezza li sgrava di ogni responsabilità. Perciò mi ripetono spesso, severamente: “Dovresti riposarti” come se non farlo fosse un mio capriccio. Poi, in pratica, appena mi vedono seduta tra loro a leggere un giornale subito mi chiedono: “Mamma, visto che non hai nulla da fare, potresti ricucire la fodera della mia giacca? Potresti stirare i miei calzoni?” e via di seguito.
Come se ciò non bastasse, Valeria non ha amiche. In occasione di una réunion con le ex compagne di scuola, si rende conto di cosa le separa: nessuna di loro ha un lavoro e lei invece sì.
Eravamo sulla porta ormai: durante quelle due ore era stato come se tutte avessero recitato una commedia di cui io sola non sapessi la parte, ne avessi dimenticato le battute. Tacevo e comprendevo a poco a poco che l’incolmabile distanza scavatasi tra di noi, in questi ultimi anni, è dovuta al fatto che io lavoro e loro no. Anzi, più precisamente, al fatto che io sono capace di provvedere ai bisogni economici della mia vita e loro no. Questa scoperta mi ha rasserenato, rendendomi più sicura di me, orgogliosa quasi, e mi ha chiarito l’impressione che avevo di essere più vecchia sebbene esse abbiano la mia età. (…) Tuttavia comprendevo anche che, per il fatto di essere indipendente, io non potrò mai più intendermi con Giuliana e le altre amiche; e ciò mi dava un senso profondo di malinconia simile a quello che si prova partendo da un luogo che ci è stato caro.
Valeria non ha neppure denaro, perché ne guadagna poco e lo utilizza per saldare vecchi debiti e provvedere ai bisogni della famiglia. Da vari accenni, assai velati perché siamo pur sempre nel 1950, intuiamo che lei e suo marito Michele non hanno più neppure una vita sessuale nonostante Valeria abbia solo 43 anni e sia ancora una donna piacente.
Dopo questa fase durante la quale si racconta per “negazione”, Valeria si apre progressivamente al resto del mondo: ma non immaginiamoci questo processo come una linea retta, o una parabola ascendente. Pensiamolo piuttosto alla camminata di un gambero: a ogni avanzamento corrisponde una retrocessione, in una dialettica che per noi lettori è avvincente ma per la protagonista è estenuante. Se all’inizio di “Quaderno proibito” di Alba de Céspedes la protagonista è solo stanca, la vediamo progressivamente diventare distratta, tesa, preoccupata, disperata e, in alcuni punti, addirittura paranoica.
Quali sono i motori di questa evoluzione? Ovviamente, gli stessi che muovono qualsiasi rivoluzione: la rabbia e l’amore. La prima e maggiore fonte di rabbia di Valeria è sua figlia Mirella, che, ça va sans dire, è il mio personaggio preferito. Essa per certi versi simile a sua madre: seria, determinata, orientata all’obiettivo. Ma questa ragazza giovane, bella e povera non vuole avere nulla a che fare con la sua famiglia d’origine e non ha paura di niente. A soli vent’anni frequenta un avvocato trentaquattrenne, Sandro Cantoni, già sposato. Sua madre teme pettegolezzi, vorrebbe per sua figlia un percorso sentimentale più ordinario, come il suo. Ma Mirella le fa subito capire che ha altri piani.
Senti, mamma: Io non voglio condurre la vita che tu e papà avete condotto. Papà è un uomo straordinario, fuori dal comune, lo so, io lo adoro. Ma insomma piuttosto di fare la vita che ha fatto fare a te mi ammazzerei. Io ho una sola carta da giocare: il matrimonio. E presto, perché non posso pretendere troppo: non ho che la giovinezza. Perciò se devo uscire uscirò, dovete abituarvi. Oltretutto, uscire mi diverte. Devi farlo capire anche a papà. Se insistete nel vostro atteggiamento, aspetterò di essere maggiorenne e me ne andrò di casa. Non avere paura mamma” ha raggiunto quasi affettuosamente “non faccio nulla di ciò che tu chiami far qualcosa di male”. (…)” e i sentimenti non li calcoli, dunque?” Mi ha interrotto dicendo che non capivo. Ho risposto che capivo benissimo. Le ho domandato se non calcolasse neppure l’amore. “Che c’entra?” ha obiettato. “Ti pare che questo vostro sia amore? Questa miseria, questo logorarvi, questo rinunciare a tutto, questo correre dall’ufficio al mercato? Non vedi come sei ridotta, alla tua età? Ti prego, mamma, tu non vuoi capire niente della vita, ma io ho sempre pensato che tu sia una donna intelligente, intelligentissima. Ragiona: che vita fate con papà? Lo vedi che papà è un fallito e ha trascinato anche te? Se mi vuoi bene, come puoi augurarti che io abbia una vita simile alla tua? (…) Ho detto a Mirella che sono sempre stata felicissima, che davvero le auguravo di esserlo altrettanto. Ho aggiunto che queste è la vita che ogni donna deve avere, che non le avrei permesso di agire come si proponeva: finché fosse stata in casa mia non glielo avrei permesso. “So che è un momento che passerà. Rifletterai, ti farò riflettere io, ti sposerai quando sarai innamorata, quando stimerai un uomo e allora amerai la tua famiglia, i tuoi bambini, come ho fatto io. Se è ricco tanto meglio, se no lavorerai, come lavoro io…”
Mirella mi ha guardato con occhi duri e ha detto: “Sei gelosa”.
Qualche tempo dopo, Mirella inizia a lavorare come praticante in uno studio legale e ritira il suo primo stipendio (bei tempi, eh, quelli dei praticanti pagati). Felice ed eccitata, torna a casa col suo gruzzoletto e rivela a sua madre il suo sogno: fare una carriera della madonna. Se per un attimo Valeria sembra aprirsi all’ambizione della figlia, presto torna al solito pattern del gambero suggerendole di essere più servizievole. È lì che Mirella, con oltre 70 anni di anticipo rispetto al Festival di Sanremo 2023, le spiega il significato dell’invito “pensati libera”.
Agli uomini, in realtà, non piacciono affatto le donne indipendenti, quelle che hanno una carriera propria, o almeno non le vogliono per mogli; e del resto lei stessa quando avrebbe avuto tra le braccia il suo primo bambino, quando lo avrebbe sentito piangere e avere bisogno di lei per nutrirsi, per vivere, non avrebbe usato trascurarlo per la vanità di un lusinghiero successo in tribunale. Mirella ha detto che le sue idee sono diverse: se anche si sposerà e avrà figli, desidererà lo stesso diventare un avvocato celebre. Arrossiva nel pronunciare questo aggettivo. Io ho sorriso con indulgenza dicendo: “Ne riparleremo” e mi sono avviata verso la cucina (…). Presto ella mi ha raggiunta e mi ha chiesto se avevo bisogno del suo aiuto. Me lo offre raramente, perciò l’ho guardata con stupore. È proprio una bella ragazza, le stanno bene i capelli tagliati così corti. La gioia del del denaro guadagnato la rendeva più ardita eppure insolitamente dolce. Mi sorrideva: “Mamma, perché non puoi ammettere che io sia felice a modo mio?”. Lei ho detto che la felicità, almeno per come la immagina lei, non esiste, lo so per esperienza. Lei ha obiettato: “Ma tu hai l’esperienza di una sola vita, la tua. Perché non mi vuoi lasciare almeno la speranza?”. Le ho detto che speri pure, non costa nulla. Poi le ho teso un piatto con le uova fritte e l’ho pregata di portarlo a suo fratello. Mi ha chiesto perché non potesse venire lui stesso a prenderlo. “Ora lo chiamo” ha detto. Io mi sono rivolto verso di lei con durezza: “Ubbidisci” le ho ingiunto “Riccardo è stanco, ha studiato tutto il giorno”. “E tu non hai lavorato tutto il giorno?” ha obiettato lei bruscamente. “E io non ho lavorato tutto il giorno?” Tuttavia è andata a portarglielo. Quando è tornata ha detto: “Questo è quello che mi rivolta, mamma. Tu ti credi obbligata a servire tutti, a cominciare da me. Allora anche gli altri, a poco a poco, finiscono per crederlo. Tu pensi che per una donna avere qualche soddisfazione personale, oltre a quelle della casa e della cucina, sia una colpa: che il suo solo compito sia quello di servire. Io non voglio, capisci? Non voglio.” Ho sentito un brivido passarmi nella schiena, un brivido gelido del quale ancora non posso liberarmi.
Il punto in cui però si sente più miserabile è quando conosce Sandro Cantoni, colui che sospetta essere l’amante di sua figlia. La cosa che più le suscita rabbia è che costui, oltre che innamorato e sincero, è pure un uomo adorabile. Onesto, lavoratore e consapevole del suo posto nel mondo.
“Mirella è una bambina. Sono certa che lei ha riflettuto e viene ad annunciarmi che è deciso ad allontanarsi, a non turbarla oltre. Non è così?” ho interrogato con un tono deciso che non ammetteva se non una conferma. “No” egli ha risposto calmo e con altrettanta decisione: “al contrario. Sono venuto a dirle che non la lascerò mai”. (…)”Lei deve allontanarsi perché Mirella ritrovi la sua calma. Mirella è giovane; basterà che lei rimanga lontano un mese, due mesi diciamo.” (…) “No signora, io ho pensato a lungo, ho riflettuto a lungo, io non ho l’età di Mirella, ho quasi 35 anni. E mi sono convinto che il mio dovere è proprio quello di restare.” (…) “Perché amo Mirella, Mirella mi ama, vogliamo lavorare insieme, abbiamo un comune programma da svolgere, credo che insieme potremmo essere non solo felici, ma utili. Non sorrida” ha aggiunto raggelando sul mio viso un’espressione di incredulità. “Lo so, quando parliamo di queste cose, di sentimenti, di propositi, siamo costretti a usare parole che appena dette sembrano goffe, retoriche, ridicole. Ma è la verità. Io non valevo gran cosa, prima: Mirella è una ragazza intelligente, bella, niente di più. È come se fossimo cresciuti d’improvviso, incontrandoci. Ora, insieme, siamo una forza. E abbiamo il dovere di non disperderla. Quando dico che vogliamo lavorare insieme, non intendo riferirmi soltanto alla nostra professione: questa sola sarebbe una scarsa giustificazione benché io sia felice di vedere che Mirella ama il suo lavoro e non lo considera, come molte altre donne, solo una necessità” (…) Mi sono sorpresa a discorrere piacevolmente con quello che forse è l’amante di mia figlia. (…) Non avevo più che una sola carta e l’ho giocata: “non ha mai pensato che Mirella possa essere stata spinta verso di lei dal suo denaro?” “Il mio denaro?” egli ha esclamato puntandosi una mano sul petto. Poi ha riso: il suo riso comunicava fiducia, era giovanissimo. “Io non ho denaro” ha detto “lavoro, ho dovuto lavorare fin da quando ero studente, come Mirella. Un avvocato deve vendere giorno per giorno il suo lavoro come una merce. Ricchi non sono quelli che possiedono il proprio lavoro: sono quelli che possiedono le cose. Io possiedo parole, le parole sono un capitale fluido. Mi bastano pochi errori per ritornare povero. Lavoreremo, con Mirella”.
Valeria-gambero, fa un passo avanti e quasi riesce a farsi una ragione di questo sodalizio amoroso-professionale, ma subito ne deve compiere uno indietro: non le è possibile accettare l’idea che l’avvocato Cantoni sia stato già sposato -con una donna americana peraltro- e che difficilmente riuscirà a convolare a giuste nozze con Mirella. In effetti le vicende di “Quaderno proibito” di Alba de Céspedes si svolgono nel 1950 ma il divorzio in Italia verrà introdotto solo nel 1970.
Onestamente devo dirle che in Italia è difficile ottenere la deliberazione di un divorzio pronunciato negli Stati Uniti. Qui si deve rimanere incatenati, condannati. La vita che sarebbe adatta a noi che ci renderebbe migliori, è lì, pronta, e quelli che non hanno coraggio sufficiente per superare i convenzionalismi sono destinati a rinunziarvi, a rimanere nel buio, nella solitudine, in quello che per loro è il peccato. (…) Allora gli ho domandato perché fosse venuto, perché avesse chiesto di parlarmi. Senza notare l’irritazione che animava la mia voce, ha risposto, calmo, con dolcezza quasi: “Per aiutare lei a capire Mirella, e anche me. Non mi piace il ritratto nel quale lei mi ha raffigurato nella sua immaginazione: l’uomo ammogliato, ricco, che insidia la ragazza ventenne. È molto diverso, creda. Noi finiremo per sposarci, un giorno, forse: ma questo non è molto importante. Importante è l’impegno totale col quale io amo Mirella e Mirella a me, quello che insieme ci proponiamo di essere, di fare. Il matrimonio non è il fine, per noi, non vogliamo essere obbligati ad amarci; ogni giorno scegliamo liberamente di amarci. Capisce, vero?” Io gli ho risposto recisamente: “No”. Anch’egli si è alzato e intanto mi fissava, come interrogandomi; i suoi occhi esprimevano affettuoso rammarico. “Forse Mirella ha ragione quando dice che lei capisce e ha paura di confessarlo”.
Dicevamo che i motori del cambiamento di Valeria sono la rabbia e, successivamente, l’amore.
Come spesso accade, per quel meccanismo che gli psicoterapeuti chiamano proiezione e che gli orientali chiamano karma, a Valeria accadrà di essere a sua volta amante. Esasperata dal clima che c’è in casa sua e spinta alla ricerca della famosa “stanza tutta per sé” inizia a recarsi in ufficio il sabato pomeriggio e lì vi trova il suo titolare Guido, che da sempre la stima a la apprezza. Anche lui fugge da casa propria, dove vivono i figli e la moglie con la quale, intuiamo, non è felice.
Questi rendez-vous sabatini diventano la luce delle loro settimane. Inizialmente non è l’attrazione sessuale a guidarli l’uno verso l’altra: Guido e Valeria s’incontrano sul terreno in cui sono entrambi a proprio agio, cioè il lavoro. Lui detta lettere, lei dattiloscrive. Ci vorranno vari incontri affinché entrambi realizzino l’ansia con cui attendono questi incontri, affinché Guido le porti un ramo di mimosa e Valeria faccia i conti con l’idea di amare un altro. In sostanza perché provi su di sé lo stesso tipo di euforica felicità che aveva letto negli occhi di sua figlia, perché scopra cosa significhi inventare l’amore.
Quella che provo quando sono con Michele è una felicità gelida, molto diversa da quella che provo quando Guido mi parla o mi prende la mano. Questi candidi gesti sono amore e i gesti che compio con Michele, invece, sono soltanto affetto o solidarietà o abitudine, neanche quei rari più intimi sono amore: pietà, piuttosto, compassione delle debolezze umane. Mi pare di aver capito tutto ciò all’improvviso. Poi ho sentito dire da Clara che l’amore va inventato giorno per giorno. Non so che cosa significhi, in pratica, ma intuisco che io non ho saputo inventarlo mai.
Non posso e non voglio dirvi come evolve la liaison tra Valeria e Guido, perché ci tengo davvero tanto a che leggiate “Quaderno proibito” di Alba de Céspedes e vi godiate personalmente il suo dissidio interiore: è un esempio perfetto di quella che pochi anni prima fu definita “discesa al pozzo”. Nel 1948, infatti, quando ancora era direttrice della rivista Mercurio, Alba de Céspedes pubblicò un intervento di Natalia Ginzburg, divenuto piuttosto famoso, in cui si dice che:
Le donne hanno la cattiva abitudine di cascare ogni tanto in un pozzo, di lasciarsi prendere da una tremenda malinconia e affogarci dentro, e annaspare per tornare a galla: questo è il vero guaio delle donne. Ho conosciuto moltissime donne, donne tranquille e donne non tranquille, ma nel pozzo ci cascano anche le donne tranquille: tutte cascano nel pozzo ogni tanto.”
Secondo Natalia Ginzburg, queste incursioni nel pozzo della tristezza accompagnano le donne fin dall’adolescenza e costituiscono il loro handicap principale.
Quello che devono fare è difendersi dalla loro malsana abitudine di cascare nel pozzo ogni tanto, perché un essere libero non casca quasi mai nel pozzo e non pensa così sempre a se stesso ma si occupa di tutte le cose importanti e serie che ci sono al mondo e si occupa di se stesso soltanto per sforzarsi di essere ogni giorno più libero.
Così devo imparare a fare anch’io per prima: perché se no certo non potrò combinare niente di serio e il mondo non andrà mai avanti bene finché sarà così popolato d’una schiera di esseri non liberi.
A questo articolo Alba de Céspedes replicò con una lettera che è la sintesi del suo pensiero e forse anche di quello di Valeria Cossati, se solo avesse avuto una stanza tutta per sé in cui sedersi e metterlo per iscritto.
Al contrario di te io credo che questi pozzi siano la nostra forza. Poiché ogni volta che cadiamo in un pozzo noi scendiamo alle più profonde radici del nostro essere umano, e nel riaffiorare portiamo in noi esperienze tali che ci permettono tutto quello che gli uomini- i quali non cadono mai nel pozzo- non comprenderanno mai.
Nel pozzo sono pure le più dolorose e sublimi verità dell’amore, anzi, sono nel fondo più profondo di ogni pozzo, ma le donne, tutte le donne delle quali tu parli, vi crollano dentro così pesantemente da riuscire a toccarle. E noi siamo spesso infelici in amore appunto perché vorremmo trovare un uomo che anche lui cadesse qualche volta nel pozzo e, tornando su, sapesse quello che noi sappiamo. Questo è impossibile, vero, cara Natalia? E perciò è impossibile per noi veramente essere felici in amore. Ma quando si cade nel pozzo si sa anche che essere felici non è poi molto importante: è importante sapere tutto quello che si sa quando si viene su dal pozzo. (…) Chi scende nel pozzo conosce la pietà. E come si può vivere, agire, governare con giustizia senza conoscere la pietà?
Tu dici che le donne non sono esseri liberi: e io credo invece che debbano soltanto acquisire la consapevolezza delle virtù di quel pozzo e diffondere la luce delle esperienze fatte al fondo di esso, le quali costituiscono il fondamento di quella solidarietà, oggi segreta e istintiva, domani consapevole e palese.
Scusa, mia cara, questa lunga lettera. Ma volevo dirti che, a parer mio, le donne sono esseri liberi: delle sofferenze che esse patiscono nel pozzo vorrei parlarti a lungo. E di questo non posso parlarti oggi perché mi trovo -come spesso- nel pozzo.
Ely
Maggio 2, 2023 at 11:27 am
Piccolo suggerimento di lettura (saggistica): La necessità della scrittura.
Alba de Céspedes tra Radio Bari e «Mercurio» (1943-1948) di Lucia De Crescenzio 😉
giulia corradi
Maggio 6, 2023 at 12:23 pm
Grazie per questa lettura di quaderno proibito . Penso sia uno dei libri più lettindellla mia vita . Ne ho ancora una vecchia copia di mia madre . L’ho letto a più riprese , quando ancora non potevo capirlo appieno e ora , che sono coetanea di Valeria .