
Il successo di un influencer
Qualche giorno fa mi chiedevo che cosa decreti il successo di un* influencer o di un* talent e, di conseguenza, cosa dovrei o potrei fare per ottenerne di più anche io. In realtà io sto piuttosto bene come sto, diciamolo, al netto del fatto che vorrei guadagnare più soldi e lavorare meno, mantenendo peraltro inalterata la qualità della mia vita. Insomma, aspirazioni modeste, le mie.
Però ecco, io credo che il successo di un* influencer sia composto da 3 ingredienti principali
- desiderabilità delle sua vita, cioè essere aspirational. Qui c’entra la coolness, la disinvoltura, la capacità di fare la cosa giusta e renderla desiderabile, di affrontare le difficoltà con stile e farle apparire magicamente cool. Lo descrivevo anni fa come “effetto Federica Moro“.
- replicabilità delle sue scelte, cioè essere relatable. L’influencer in questo caso è soprattutto pionier*: fa acquisti intelligenti, scova mercatini vintage, legge autori danesi sconosciuti e li fa amare/provare/acquistare alla sua audience che, attraverso scelte di consumo simili, si sente più vicina a lei. La notizia buona è che ci sono molte community, quindi chi viene disprezzat* in una è fonte di grande ispirazione in un’altra: qui c’è spazio per tutt*.
- autorevolezza delle sue opinioni, cioè essere influential. Significa ragionare ed esprimersi, e in senso più ampio, comunicare in maniera attraente. A mio modesto parere il mix perfetto è 50% chiarezza espositiva e 50% originalità (anche se vedo che le due cose non per forza vanno di pari passo), insieme a un certo tipo di ironia ed espressività facciale. Ammetto tuttavia che ci sono alcun* talent di tutto rispetto che sono completamente priv* di senso dell’umorismo, quindi forse l’arguzia è un bisogno tutto mio. No, non farò nomi.
- rapporto con la community, cioè la closeness. Bello esprimersi, ma le persone non si accontentano di abbeverarsi alla sacra fonte delle opinioni ma vogliono interagire: il che è molto time consuming. Gestire personalmente i rapporti con una community è possibile e spesso anche piacevole per i profili piccoli come il mio: dopodiché diviene materialmente ingestibile, e la relazione dev’essere spostata su strumenti diversi dalla messaggistica. Ciò non toglie che il livello di monitoraggio (e spesso sollecitazione) da parte dell’audience è diretto e costante. Dall’influencer ci si aspetta anche consigli e opinioni plug-and-play: ispirami, fammi risparmiare tempo, fammi pensare, cagami e se riesci, famme ride.
Le celebrities (nel senso anni ’90 del termine: cantanti, attori e attrici) investivano così tanto tempo nel rapporto con i propri fan? La risposta è no. La celebrity scodellava la sua performance -spesso neanche così pazzesca, ché le capre ci son sempre state- e poi tornava a bagnare le piante nel suo attico ai Parioli. Se doveva dire qualcosa -e non era una cima di eloquenza- aveva un* portavoce, un addett* stampa, o addirittura l’auricolare.
L’influencer al massimo ha un’agente, se è fortunat* ha una persona che l’assiste nella produzione video, ma per il resto è portavoce di se stess*: se rilascia una dichiarazione imbecille durante un’intervista, non c’è nessun allenatore in conferenza stampa pronto a giustificarl* e ricomporre i cocci. In più, l’influencer è un azienda perennemente fatturante: se non c’è orario e se parte del suo lavoro è avere un’opinione, al* talent viene richiesta una “coerenza” che alle celebrieties non veniva chiesta. Potevano mangiare dalla pentola, non fare la differenziata, dare uno scappellotto ai figli ogni tanto, cose così, ed essere comunque considerate delle persone perbene.
L’influencer mostra così tanto della sua vita privata che ha interiorizzato lo sguardo del pubblico: io lo chiamo “audience haze”, quello che ti porta a chiederti se sei presentabile. Che non significa per forza bell*, ma semplicemente se stai mostrando qualcosa di te che è coerente con la narrazione messa in piedi finora, se non s’infrangerà un mito, se e come quanto sarà detto potrà rompere un equilibrio faticosamente costruito. Nel dubbio, la talent toglie le ciabatte del marito, vai a darsi una pettinata o comunque si mette a favor di telecamera. Come lo so? Perché lo faccio sempre.
Questo è secondo me la parte più snervante del lavoro, quel carico mentale che probabilmente non si intuisce da fuori: innalzare il profilo è relativamente facile, ma poi tocca mantenerlo. Nel frattempo, le aspettative del pubblico “medio” sembrano essere impazzite e questo, sinceramente, mi spaventa: tutti hanno bisogno di qualcuno da stimare, amare, idolatrare. Le reazioni di disapprovazione sono altrettanto eclatanti: non c’è un sentimento che tramonta naturalmente, una passione che sfiorisce. No: c’è disappunto, delusione e, possibilmente, una gogna da organizzare su due piedi.
Da questo fenomeno sono caratterialmente protetta: a parte Che Guevara, non idealizzo quasi mai nessuno e quindi non ho molte aspettative da disattendere. Ma chissà quante persone sono rimaste deluse da me, dalle mie risposte, le mie scelte commerciali, dalle collaborazioni che accetto, o forse perché si è scoperto che do i bastoncini Findus a mio figlio, e altri drammatici scivoloni.
Tra le doti del talent, sicuramente c’è accettare di non poter piacere a tutti: ed è questo, non i numeri, che non mi consentirà mai di fare il salto.
polly
Giugno 14, 2021 at 3:13 pm
Quell’ultima cosa che citi è il motivo per cui, quando avevo un blog che funzionava, ho deciso che non doveva crescere, né doveva trasferirsi sui social. Non perché mi stressava l’ipotesi di essere sempre vista, ma perché avevo paura che prima o poi mi sarei trasformata nella narrazione di me che avevo proposto. Una narrazione sicuramente molto vera, ma comunque parziale.
Post super interessante, soprattutto per chi, come me, lavorando nel marketing, ogni tanto si trova a dover esprimere un’opinione su: “dovremmo contattare un talent? E chi?”.
gynepraio
Giugno 15, 2021 at 11:46 am
Devo dire che ogni tanto mi coglie questo dubbio e allora faccio dei check con le amiche chiedendo se online sembro diversa, sgradevole, irriconoscibile. Se mi dicono tutte di no, mi rilasso.
Solo due persone mi hanno redarguita e ho tenuto in grande conto le loro parole, standoci peraltro MALISSIMO.
Giulia M.
Giugno 15, 2021 at 1:10 pm
Giusta riflessione, parole sempre intelligenti le tue Valeria. È molto apprezzabile anche l’utilizzo della scrittura inclusiva, per ricordarci che il femminile c’è ed è sempre bene esplicitarlo. Mi chiedo quale sarà il futuro della pratica dell’”influenzare”, dal punto di vista commerciale ed etico.
gynepraio
Giugno 15, 2021 at 6:48 pm
Secondo me continuerà a sussistere: in particolare ne coglieranno il potenziale anche i brand più piccoli, che per forza di cose ricorreranno a influencers più local e specializzat*. Sinceramente lo trovo positivo, così come trovo positivo che le persone (gli influenzati e le influenzate, chiamiamol* così) sviluppino gusti e anche una certa forma di avversione per chi comunica in modo standardizzato o non trasparente, obbligando così gli e le influencers a fornire un servizio sempre più professionale e competitivo. Ripeto, non ci vedo nulla di male.
Noemi
Settembre 9, 2021 at 3:20 pm
L’effetto “Federica Moro” che ha fatto sognare un paio di generazioni il collegio, l’uniforme vagamente sexy, i cadetti fighi, ah che bei tempi…
Ogni tanto vedendo certi profili mi chiedo davvero come abbiano fatto certe persone ad aver costruito una carriera (e un cospicuo conto in banca) sul nulla, o meglio, sull’infelicità di persone che seguono la vita di queste persone come noi guardavamo College.