
Il creator è un lifelong job?
Qualche settimana fa ho partecipato alla presentazione del libro “Influencers and creators” di R.Kozinet, U.Gretzel e R.Gambetti presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Si tratta di un manuale che raccoglie quanto finora si è appreso sul ruolo di (indovina un po’!) influencers e creators. È un’opera corposa, che offre una overview “storica” sullo sviluppo dell’arena competitiva, sui rapporti di forza e collaborazione tra tutte le figure professionali e gli stakeholders che gravitano attorno a questo mercato costruendo così un vero e proprio ecosistema.
Gli autori analizzano alcuni modelli di collaborazione tra committente e talent, ognuno basato su obiettivi diversi, e descrive il flusso di creazione e diffusione del branded content: per questo trovo che possa essere di grande aiuto a chiunque non sappia come si progetta una campagna di influencer marketing o, peggio ancora, derubrichi il lavoro professionale dei talent a semplice show off. Ci sono definizioni piuttosto puntuali, utili a disambiguare Infine, non mancano alcuni accenni a questioni di natura etica: burnout e riverberi sul benessere psicoemotivo, la tutela della privacy, sfruttamento dell’immagine di animali e minori (confesso che su quest’ultimo tema mi sarei aspettata un approfondimento maggiore, ma riconosco che è un tema che mi sta particolarmente caro)
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Nel leggerlo, mi sono tornate alla mente alcune riflessioni già fatte in passato: il pensiero mi era già nato nell’agosto di alcuni anni fa, durante una chiacchierata con Simona Pastore davanti a un Hugo, in un baruccio di Moena. Il suo di allora fidanzato, perplesso e forse preoccupato dal fatto che all’epoca lavorasse principalmente come influencer, la esortava continuamente a pensare a una exit strategy o a pensare a un piano B. Allora io avevo un ruolo in azienda e quello da creator per me era solo un side project, quindi non pensai che fosse effettivamente un tema sul quale interrogarsi.
Negli anni, ho notato che la maggior parte di creators e influencers cerca di espandere il proprio business fuori dai social. Tra le strade adottate più di frequente, ci sono:
- libri o podcast
- spettacoli o tour teatrali
- merchandising e collezioni
- formazione e insegnamento
- consulenza
- affiliation marketing
Di primo acchito, potremmo pensare che si guardino attorno spintə dal desiderio di monetizzare o differenziare le fonti di introito ma a un occhio più attento, c’è soprattutto l’urgenza di trovare un piano B.
Io, personalmente, affianco a -sempre più sporadiche- collaborazioni sui social alcune attività da autrice, docente e consulente. Questo non solo perché sono presuntuosamente convinta di essere una multipotenziale e non sento che nel lavoro da creator riuscirei a esprimere tutte le mie capacità, ma anche perché alcuni dubbi di natura etica mi hanno portata a voler ribilanciare il mio livello di esposizione personale.
Ma, uscendo dai confini della mia microesperienza personale, ho provato a chiedere in giro se quello del creator è un lifelong job: ebbene, nessuno deə mieə colleghə coetanei percepisce la propria carriera come “destinata a durare”. C’è una sensazione di caducità, di effemerità diciamo, che porta tuttə a spremere al massimo il momento, godersela finché dura ma intanto guardare altrove.
Va detto che questa è una industry molto giovane: il business e le professioni che ne derivano si sono sviluppate da pochissimi anni e quindi la maggior parte deglə operatorə coinvoltə è giovane, tendenzialmente under 35. Questo è vero per influencers e creators, ma anche per le figure che gravitano attorno a loro: product manager, SMM, account, creativə, videomakers etc. È un mondo di persone giovani, che usa linguaggi e strumenti giovani, che parla a persone giovani o desiderose di esserlo.
Il problema, però, è che questo Paese non è affatto giovane: esiste una fetta della popolazione scarsamente rappresentata dal panorama di influencer e creators, al quale i brand e il marketing in generale guardano solo occasionalmente, se e quando se ne ricordano. Sento un certo affannarsi (non è il caso della sottoscritta, che infatti è pigra e refrattaria) ad apprendere e sfruttare linguaggi nuovi dimenticandoci che esiste una generazione, gli over 50, dotata di bisogni e potere d’acquisto molto più interessanti rispetto a quelli degli under 20, ma anche più difficile da conquistare e convertire: è un pubblico meno influenzabile e più scaltro, ma anche meno volubile e più fedele. Si chiama Silver Economy: secondo uno studio del 2018 voluto dalla Commissione Europea le persone 50+ diventeranno 222 milioni nel 2025, arrivando a rappresentare il 43% della popolazione.
Eppure il panorama dell’influencer marketing italiano conta pochissimi volti over 45 e ancora meno over 50, e spesso anch’essi si forzano ad adottare approcci e stili non coerenti con la propria personalità e fascia di età. Quasi nessunə è veramente celebre o autorevole, cioè possiede voce e spazio al di fuori della propria community, quasi tutti tendono a replicare format e linguaggi mutuati dai creator più giovani, con risultati a volte discutibili.
Quindi in conclusione penso che sì, quello del creator è un lifelong job solo a patto che si accetti di crescere e invecchiare con la propria community, e di adeguarsi autenticamente ai suoi bisogni. Forse la mia generazione -quella dei primi millennial- tra qualche anno sarà la prima ad avere i propri volti di riferimento, cioè una rosa di creator davvero capace di “parlare” davvero con loro. Se resisto, e non mi ritiro a vivere in un alpeggio della Valsusa, potrei essere una di loro.