Il senso di colpa è stato una costante di buona parte della mia vita, e considero una delle mie più grandi conquiste l’essermene liberata. Mi è costato soldi e tempo, ma le svolte sono state ben due:
- Ho smesso di usarlo per impormi o ottenere ciò che desideravo. Mi vergogno di dire che in numerose occasioni ho utilizzato l’arma del senso di colpa, del pianto, della recriminazione passivo-aggressiva per denunciare il fatto che non stavo ricevendo sufficiente attenzione e fare presente ai miei fidanzati che mi stavano provocando atroci dolori. Ripensandoci, sarebbe stato molto più fruttuoso essere assertiva e dire ciò che desideravo, o più propositiva e creare occasioni di condivisione (oppure ancora, chiedermi perché questa persona non mi dava abbastanza attenzione). Tra l’altro questo mio comportamento trovava un terreno molto infertile, non soltanto perché odioso e fuori luogo, ma anche perché i miei interlocutori erano incapaci di sentirsi in colpa: ipotizzo, senza chiamare in causa chissà quali luminari di psicologia dello sviluppo e di critica femminista contemporanea, che essendo maschi fossero meno avvezzi a sentirsi manchevoli e rimettere continuamente in discussione le proprie scelte? Chiedo, eh.
- Ho iniziato a domandarmi, ogni volta che lo sentivo, da dove proveniva il mio senso di colpa: ero io a sentirmi manchevole rispetto a uno standard che mi ero data, oppure stavo male perché qualcun altro mi imponeva un metro di giudizio che non era il mio? Ci sono alcuni casi in cui il senso di colpa funziona come campanello di allarme e serve a ristabilire le priorità: ma per quanto mi riguarda deve sempre partire da un moto spontaneo personale e da una puntualizzazione altrui. In altre parole, mi devo sentire una merda io e non voglio che qualcun altro mi induca forzosamente questa presa di coscienza.
IL SENSO DI COLPA MATERNO: MIO FIGLIO È FELICE?
Il senso di colpa materno è ancora più complesso rispetto al senso di colpa comune, perché ha a che vedere con l’istinto, con gli stereotipi e con una istituzione, la famiglia, a proposito della quale tutti sembrano avere qualcosa da dire. Con l’arrivo di Elia abbiamo scelto una ménage domestico schematico ipersemplificato: nido privato full time 9-18, logistica in uscita ed entrata a mio carico all’80%, weekend casa&famiglia con due finestre a testa (2 per me, 2 per il papà) per respirare, scrivere, guardare il campionato. Niente fughe d’amore, poche cene fuori, pochissimo parrucchiere.
In tutto questo, il lavoro: io sto in ufficio 40 ore settimanali. Ovviamente mi piacerebbe lavorarne solo 20 per gestire le minuzie in settimana e non avere i weekend infarciti di orride commissioni, andare a comprare lo shampoo al supermercato invece di ordinarlo su Amazon, preparare deliziose cenette a base di pomodorini confit infornati 2 ore, portare il mio bambino al parco a sfogliare margherite e nutrire scoiattoli anziché recuperarlo col favore delle tenebre relegando le nostre interazioni alla fascia oraria 19-21, recuperare il mio fidanzato al lavoro e concederci uno spritz mentre mia mamma o mia suocera -che nei miei sogni sono giovani, fisicamente prestanti ed entrambe residenti a 100 metri da casa mia- si prendono cura del piccolo. In conclusione: mi piacerebbe lavorare di meno non soltanto per assistere direttamente al miracolo della crescita di mio figlio ma anche per dedicare al lavoro (cioè al maledetto capitale) meno ore della mia preziosa giornata e meno giorni della mia preziosa vita.
Non sono mancate le persone che mi hanno apertamente criticato perché ho smesso di allattare/ho ricominciato a lavorare/ho iscritto Elia al nido/l’ho abituato a dormire da solo troppo presto. Quando mi chiedono a che ora esce Elia dal nido, io rispondo “Alle 6, appena finisco in ufficio” e vedo che in molti alzano le sopracciglia o dicono “così tante ore da solo, poverino?”: chissà cosa commenterebbero se sapessero che certe sere, quando il ponte di Corso Regina Margherita è intasato, arrivo al nido che manca un quarto alle 7.
Avrei potuto argomentare con una lunga serie di ragionamenti sensati. Ad esempio, che un nido risulta per un bambino un luogo più divertente rispetto una casa perché attrezzato per scorrazzare senza rischio e senza che un genitore cagacazzo ti dica di non rompere questo e non toccare quell’altro. Oppure che il nido è un’ottima alternativa alla TV, dinanzi alla quale molti bambini vengono parcheggiati anche 2 ore al giorno. Avrei anche potuto citare gli articoli di pedagogia sull’importanza della socializzazione precoce, sul lavoro insostituibile svolto dagli educatori professionisti, su quanto sia preziosa la collaborazione che si può sviluppare tra istituzioni e famiglie. Avrei anche potuto vendicarmi -vi ricordo che sono stata cintura nera di senso di colpa- e farli vergognare della loro indiscrezione: spiegando che la mia situazione finanziaria non è tale da poter rinunciare a un secondo stipendio, o che la mia composizione familiare al momento non comprendeva nonni sani e ipercollaborativi, e che quindi non avevo sostanzialmente scelta.
Però sono stata zitta, perché il mio obiettivo non è difendermi, sostenere la mia posizione né convincere nessuno. Il mio obiettivo è accertarmi, giorno dopo giorno, che i componenti della mia famiglia siano ragionevolmente felici. Felici alla maniera occidentale che tutti conosciamo, cioè piuttosto felici: sani, sazi, sereni, dormienti, sicuri, protetti, contenti di essere dove siamo. Con questa logica ho compiuto la maggior parte delle scelte che ci riguardavano: dove partorire Elia, come intrattenerlo, nutrirlo, vestirlo, addormentarlo, il modo in cui sono stati allestiti gli spazi domestici, il tipo di asilo nido cui l’abbiamo iscritto, quanta privacy garantirgli. Sempre in questa logica cerco di ridere e farlo ridere il più possibile, proteggendo il nostro microcosmo domestico dall’insoddisfazione, dalla freddezza, dai silenzi, dal malumore.
IL SENSO DI COLPA MATERNO: MIO FIGLIO PUÒ ESSERE ANCORA PIÙ FELICE?
Posto che siamo, a occhio e croce, abbastanza felici, mi chiedo: se lavorassi meno, Elia sarebbe più felice? Che so, tipo, scoppierebbe di felicità? Onestamente, non lo so. Quello che so è che il mio bambino è un tipo allegro, abbastanza ragionevole e sereno, molto affettuoso. Sicuramente come genitore ho margini di miglioramento sul fronte creativo: quando vedo su Instagram le mamme Manidoro che cucinano i biscotti a forma di minipony, scolpiscono sculture di creta e crescono fragole selvatiche sul balcone, mi sento un’incapace. Per contro mi chiedo: se stessi a casa tutti i pomeriggi, mi metterei a intagliare per lui strumenti musicali in legno? Mi iscriverei a un corso mamma-figlio di ponte tibetano? Diventerei campionessa olimpica in pic-nic al parco? Credo di no, ecco. Anche con 3 ore in più al giorno, probabilmente resterei sempre la solita mamma, e i miei assi nella manica sarebbero più o meno gli stessi: storie e canzoni da me inventate, versi degli animali, salami e polpette di pongo, solletico. Elia sarebbe più felice se costruissi per lui una macchinina in FIMO? Non lo so, non ne sono sicura. Quello di cui sono sicura, però, è che io al momento non mi sento in colpa.
IL SENSO DI COLPA MATERNO: io posso essere ANCORA PIÙ FELICE?
Se io avvertissi che mio figlio ha bisogno di stare con me e mi sentissi incapace di soddisfare il suo bisogno -cioè se mi sentissi manchevole- oppure se desiderassi trascorrere più tempo con lui, io correrei ai ripari. Non voglio che mio figlio respiri il mio senso di colpa, che è un’emozione troppo grande, troppo adulta e troppo triste: non voglio metterlo precocemente a contatto con un sentimento così difficile da maneggiare e gestire. Perché lo percepirebbe e dovrebbe decidere cosa farne, del mio senso di colpa materno, e tendenzialmente non ne farebbe un buon uso. Il punto, però, è che non mi sentirei solo in colpa: io mi sentirei infelice, il che è ben peggio.
Correre ai ripari significherebbe cercare un altro lavoro, o un’altra organizzazione del lavoro attuale. Io so che ottenere una riduzione di orario è difficile: il part-time in italia è un problema connaturato alla struttura del nostro tessuto imprenditoriale. Prevalgono le piccole e medie imprese in cui la defezione di un dipendente (durante la gravidanza, la maternità, ma anche per via di una riduzione di orario) ha un reale impatto sulla produttività. In più, anziché un agevolatore di benessere viene considerato un privilegio che può addirittura creare delle differenze e dei precedenti all’interno dell’organizzazione. Viene quindi centellinato, concesso come dono divino, e fatto pesare come una pietra al collo. Si leggono pochissime offerte di lavoro con orario part-time, e spesso non sono interessanti, o sono palesemente delle bufale.
L’ideale è davvero reinventarsi una carriera e cambiare ruolo: ci sono sicuramente alcune professionalità che si prestano più di altre a trasformarsi, a fluire agevolmente dallo status di dipendente a quello di free lance. Ci sono anche persone con una buona attitudine al rischio e famiglie con maggiore capacità di sopperire a una riduzione di introiti. Io conosco due madri che hanno compiuto questa scelta -volontariamente, con attenta ponderazione- e so per certo che non se ne sono pentite, proprio perché erano entrambe animate dall’obiettivo di essere più felici, e non meno colpevoli. Cioè l’unico motivo per cui valga veramente la pena rimettere in discussione le proprie scelte.